Come funzionano gli psicofarmaci? (II)

Joanna Moncrieff* & David Cohen**

Articolo originale: “How do psychiatric drugs work?”, British Medical Journal, 338, 1535-1537, 2009

I farmaci utilizzati per i problemi psichiatrici vengono prescritti sulla base dell’assunto che essi agiscano principalmente sui substrati neurochimici dei disturbi o dei sintomi. In questo articolo metteremo in discussione questa assunzione, proponendo che l’azione dei farmaci venga considerata piuttosto in termini di induzione di stati alterati, e che definiamo “modello di azione centrato sul farmaco”. Riteniamo che questa visione sia, rispetto alla prima, che è centrata sulla malattia, più compatibile con le evidenze disponibili. E potrebbe permettere ai pazienti di esercitare un maggiore controllo sulle decisioni riguardanti il valore della farmacoterapia, indirizzando il trattamento in un senso più collaborativo.

Assunzioni sul funzionamento del farmaco

L’ampio uso di farmaci psicotropi è giustificato dall’idea che essi funzionino correggendo, o aiutando a correggere, sottostanti anomalie biologiche che sarebbero responsabili di particolari sintomi psichiatrici. Abbiamo definito questa visione il modello di azione dei farmaci psicotropi centrato sulla malattia (vedi tabella). Si può presumere che il funzionamento della maggior parte dei farmaci usati in medicina possa essere compreso in accordo al modello centrato sulla malattia – anche gli analgesici, per esempio, funzionano agendo sul meccanismo fisiologico responsabile del dolore. In psichiatria, il modello centrato sulla malattia si riflette sulle definizioni delle principali classi di farmaci: gli antidepressivi si suppone che invertano le sequenze biochimiche che danno origine ai sintomi della depressione, e gli antipsicotici si ritiene che agiscano sui meccanismi che producono i sintomi psicotici. Da questo punto di vista, l’azione terapeutica dei farmaci (la loro azione sui processi morbosi) può essere distinta da altri effetti, coerentemente definiti effetti collaterali.

Il modello alternativo che proponiamo, centrato sul farmaco, mette in risalto il fatto che gli psicofarmaci sono prima di tutto e innanzi tutto farmaci psicoattivi. Essi inducono, cioè, stati fisici e mentali complessi, variabili, spesso imprevedibili, che tipicamente il paziente sperimenta nella loro interezza, piuttosto che come effetti terapeutici distinti dagli effetti collaterali (vedi tabella). In questa chiave, l’utilità del farmaco potrebbe essere attribuibile al fatto che uno stato alterato del funzionamento del cervello (indotto dal farmaco) possa dar luogo alla soppressione delle manifestazioni di certi disturbi mentali.

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Il modello dell’azione del farmaco centrato sulla malattia fu sviluppato negli ’50 e ’60 per tentare di comprendere come funzionavano gli psicofarmaci, e ben presto andò a sostituire un modello precedente, centrato sul farmaco [1]. Per esempio, nelle prime ricerche su neurolettici o antipsicotici, gli autori avevano proposto che essi funzionassero inducendo una sindrome neurologica consistente in una limitazione motoria e in sintomi psichici quali rallentamento ideativo, apatia e appiattimento emotivo, che ricordava nell’insieme il morbo di Parkinson [2]. Questi effetti riducevano anche i sintomi psicotici. In tal modo, gli effetti extrapiramidali, e gli effetti psichici associati, non erano considerati come effetti collaterali, ma come il meccanismo attraverso il quale i farmaci producevano gli effetti desiderati [3].

Già da molto tempo, in realtà, si è ritenuto che non fosse necessaria l’induzione di un evidente parkinsonismo per produrre un effetto terapeutico, ma d’altra parte non è stata prestata molta considerazione alle alterazioni psichiche (per esempio il rallentamento ideativo e l’appiattimento emotivo) prodotte dai neurolettici, se non a come queste potessero interagire con i sintomi psicotici. Più recentemente, alcuni hanno sostenuto che l’indifferenza emotiva indotta dai neurolettici possa spiegare gli effetti terapeutici [4], e ricerche empiriche supportano questa posizione [5]. Complessivamente, il modello centrato sul farmaco suggerisce di guardare più da vicino a come le alterazioni psichiche prodotte dagli psicofarmaci interagiscono con le esperienze di disagio e con le disabilità che spingono le persone a chiedere un aiuto clinico [6].

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Evidenze sull’azione degli psicofarmaci

Entrambi i modelli (quello centrato sul farmaco e quello centrato sulla malattia) aiutano a chiarire i possibili meccanismi d’azione degli psicofarmaci e non si escludono a vicenda. Tuttavia, trascurare gli effetti psicoattivi degli psicofarmaci ha reso difficile stabilire azioni correlabili specificamente alla malattia. Per esempio, gli studi controllati col placebo non sono concepiti per distinguere se gli esiti osservati si verifichino per effetto dell’azione del farmaco su un sottostante processo patologico, o siano una conseguenza del trovarsi in uno stato alterato. Gli effetti psicoattivi, compresa la sedazione e il rallentamento psicomotorio, potrebbero avere un effetto sui sintomi di innumerevoli disturbi ed essere distinti dagli effetti associati al placebo inattivo. Qualsiasi farmaco con proprietà sedative, per esempio, può modificare i disturbi del ritmo sonno-veglia che si riscontrano in molte condizioni psichiatriche e che sono riportati nelle scale di valutazione utilizzate negli studi clinici, specifiche per il disturbo oggetto dello studio.

Una seconda difficoltà è la scarsità di studi che utilizzino un placebo attivo o che confrontino farmaci ritenuti essere specifici del disturbo con altri farmaci di cui sono noti effetti psicoattivi. I primi studi che comparavano cloropromazina e barbiturici avevano mostrato una maggiore efficacia della prima, ma il confronto con le benzodiazepine ha dato risultati contrastanti [7], e uno studio di confronto con l’oppio non ha mostrato differenze[8]. Tuttavia, malgrado l’evidenza circa la superiorità degli antipsicotici possa implicare effetti specifici sulla malattia, questa superiorità può essere spiegata anche all’interno del modello centrato sul farmaco. Questa visione suggerisce infatti che le tipiche limitazioni psicomotorie ed emotive indotte dagli antipsicotici siano più efficaci nel ridurre l’agitazione psicotica rispetto ad altri farmaci con azione sedativa, come ipotizzato dai primi ricercatori [2].

Farmaci considerati normalmente non antidepressivi, quali antipsicotici, benzodiazepine, stimolanti, hanno mostrato effetti comparabili a quelli degli antidepressivi [9]. Il confronto del litio con antipsicotici e benzodiazepine non ha confermato la sua superiorità nel trattamento della mania o delle psicosi affettive. Sebbene i risultati di uno studio abbiano suggerito qualche effetto differenziale su particolari sintomi [11], per altri questa differenza non è stata dimostrata [12].

Le teorie sull’eziologia biochimica, quali l’ipotesi dopaminergica sulla schizofrenia o quella monoaminergica sulla depressione, sembrano supportare una visione dell’azione del farmaco centrata sulla malattia, ma in realtà è proprio la presunta specificità del farmaco a rappresentare il più forte sostegno alle ipotesi biochimiche. Coloro che propongono l’ipotesi dopaminica sostengono che l’antipsicotico tragga il suo effetto terapeutico dalla correzione della sottostante disregolazione della dopamina [13]. Tuttavia, ci sono poche evidenze che una qualche anomalia del sistema dopaminico, o di altri fattori associati all’attività dopaminica, quali un incremento dell’eccitazione o dello stress, siano specifici della psicosi. Il fatto che alcuni efficaci antipsicotici come la clozapina abbiano una relativamente debole azione sui recettori della dopamina sembra inoltre contraddire la teoria dopaminergica [14].

Anche le evidenze in favore della ipotesi monoaminergica della depressione, che sostiene che gli antidepressivi funzionino contrastando una deficienza di attività della noradrenalina o della serotonina, sono discutibili. Molti differenti studi sui metaboliti dei farmaci e sui recettori, nonché indagini postmortem non hanno prodotto dimostrazioni attendibili di una tale deficienza in persone affette da depressione [15].

In generale, vi sono stati solo pochi tentativi di valutare il modello esplicativo dominante dell’azione degli psicofarmaci centrata sulla malattia, poiché pochi sono convinti che esista una spiegazione alternativa [1]. In ogni caso, le poche evidenze disponibili non forniscono ancora basi convincenti al modello centrato sulla malattia.

La ricerca sul modello centrato sul farmaco

Ci sono state finora poche indagini sistematiche sull’intero ventaglio di effetti psicoattivi e somatici prodotti dagli psicofarmaci. Questo tipo di informazioni è spesso oscurata dagli studi a breve termine, strettamente focalizzati sugli effetti sui sintomi e sugli esiti e che relegano altri effetti allo status di effetti collaterali [16]. C’è inoltre scarsità di studi sugli effetti a lungo termine spesso imprevedibili degli psicofarmaci, sulle conseguenze della loro sospensione e sulla natura della grande scatola nera per il momento definita “effetto placebo”.

Per esempio, resta non chiara la natura degli stati soggettivi indotta dall’assunzione di antidepressivi SSRI e di come essi interagiscano con il sistema delle aspettative. Studi su volontari sembrano suggerire che queste sostanze possono avere concomitanti effetti sia sedativi sia attivanti o stimolanti [17] e alcune ricerche, non confermate, indicano che essi riducono la responsività emozionale [18]. Non è chiaro inoltre come possano indurre ideazione suicidaria, e se la inducano realmente.

Analogamente, pochi dati esistono circa gli effetti soggettivi degli antipsicotici di seconda generazione, quanto differiscano gli uni dagli altri, e quanto i loro effetti siano simili a quelli di prima generazione. E’ ovvio che questo genere di informazioni è cruciale se i pazienti devono compiere scelte informate in merito a quanto questi farmaci possano realmente migliorare le loro condizioni psichiche, e a che prezzo.

Studi su volontari di più vasta portata sono necessari per ottenere dati sull’intero ventaglio di effetti degli psicofarmaci. E’ anche importante prestare attenzione ai resoconti spontanei di persone con esperienza diretta di assunzione di psicofarmaci disponibili su Internet, per esempio. Abbiamo bisogno di studi che consentano di individuare metodi per esplorare le esperienze dei pazienti in un modo più diretto di quanto non accada con gli studi basati sulle diagnosi e sulle scale di valutazione applicate dai clinici. Dovrebbero essere raccolti anche i punti di vista dei pazienti una volta che i farmaci siano stati sospesi, dal momento che molti effetti possono essere difficilmente identificati nel corso della condizione alterata indotta dal trattamento.

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Implicazioni per la pratica clinica

Il messaggio veicolato dai foglietti illustrativi e dalle campagne pubblicitarie ha persuaso milioni di persone che i disturbi mentali sono causati da squilibri chimici che possono essere corretti dai farmaci [19]. Tuttavia, data la scarsità di evidenze, noi suggeriremmo che i prescrittori non presentassero i farmaci per i disturbi mentali come trattamenti specifici per la malattia. I farmaci psicotropi dovrebbero essere rinominati, evitando la presunzione di specificità costruita intorno a etichette come “antidepressivi” e “antipsicotici”.

Il modello centrato sul farmaco potrebbe cambiare le attitudini verso gli psicofarmaci e dare al paziente un maggiore potere nelle decisioni riguardanti il suo trattamento. Laddove un modello centrato sulla malattia ha incorporato l’assunzione che il trattamento farmacologico agisce sulla fisiologia cerebrale come correttivo e da ciò deriva il beneficio, un modello centrato sul farmaco, che mette in evidenza il fatto che i farmaci sono sostanze che alterano il funzionamento dell’organismo, richiede che vantaggi e svantaggi di assumere un farmaco vengano attentamente soppesati.

Mettere in evidenza che gli psicofarmaci sono sostanze psicoattive permette al paziente di valutare quale tipo di effetti indotti dal farmaco può essere di aiuto e quale no. Il punto di vista dei pazienti diverrebbe così il metro di giudizio circa il valore di assumere un determinato farmaco e sarebbero incoraggiati ad assumere un ruolo attivo nella regolazione del dosaggio dei farmaci in funzione dei propri bisogni.

Nel breve termine, per esempio, l’inibizione cognitiva ed emotiva, per come è descritta dalle persone che hanno assunto antipsicotici, potrebbe costituire un sollievo per le persone traumatizzate da intense esperienze psicotiche e consentire loro di rapportarsi meglio con il mondo che le circonda [20]. Tuttavia, dopo la ripresa da un episodio acuto, la persona potrebbe decidere che il disagio prodotto dal mantenimento dello stesso trattamento farmacologico non è compensato dalla riduzione del rischio di ricadute che un’assunzione a lungo termine potrebbe produrre. Secondo il modello centrato sul farmaco, cioè, la non compliance potrebbe rappresentare una risposta ragionevole agli effetti del farmaco, che i prescrittori dovrebbero comprendere e tener presente, piuttosto che scartare a priori.

Le persone affette da depressione potrebbero probabilmente rispondere in modo differente alla proposta di un farmaco inteso come una sostanza che produce uno stato alterato, piuttosto che a un farmaco considerato in grado di agire sul sottostante meccanismo biologico responsabile dei sintomi depressivi. Diversi farmaci psicoattivi, come gli antipsicotici e probabilmente gli antidepressivi SSRI, possono limitare l’esperienza e l’espressione delle emozioni, inclusi i sentimenti depressivi, ma è difficile immaginare che molte persone possano desiderare questo tipo di effetti. D’altra parte, alcune persone con depressione potrebbero trovare momentaneamente utili gli effetti sedativi di certi farmaci, come le benzodiazepine o gli antidepressivi triciclici a basso dosaggio per le turbe del sonno, l’ansia, e l’agitazione.

In tal modo, il modello centrato sul farmaco fornisce un razionale all’uso periodico, anziché continuo, dei farmaci, al fine di fronteggiare le esacerbazioni dei sintomi, di alleviare gli eventi ambientali stressanti e di evitare al contempo il danno possibile dell’utilizzo a lungo termine. Esso potrebbe mettere in discussione l’uso di complessi cocktail di farmaci, comunemente prescritti per esempio negli Stati Uniti, basati sulla presunta indicazione di farmaci differenti per le multiple diagnosi date al paziente. Il modello centrato sul farmaco potrebbe inoltre permettere ai medici, ai pazienti, alle persone vicine ai pazienti, di monitorare in modo appropriato l’insieme degli effetti del trattamento farmacologico e di mantenere un dialogo continuo che valuti questi effetti comparandoli con quelli di altri possibili interventi alternativi.

La medicina, nel suo complesso, sta sempre più riconoscendo l’importanza di coinvolgere il paziente nelle decisioni riguardanti il suo trattamento. Portando in evidenza la natura degli psicofarmaci in quanto sostanze psicoattive che inducono stati alterati, il modello centrato sul farmaco potrebbe permettere ai pazienti di partecipare in modo più paritario nel processo di valutazione dei possibili effetti che il trattamento farmacologico produce nelle loro situazioni particolari. Un modello centrato sul farmaco impone inoltre alla comunità dei ricercatori in psichiatria di produrre informazioni rilevanti e imparziali circa il ventaglio degli effetti che gli psicofarmaci esercitano sul pensiero, la sfera emotiva, e tutti i sistemi corporei, sia nel corso del trattamento a breve termine che in quello a lungo termine. Attualmente, l’influenza del modello centrato sulla malattia mantiene oscurato l’intero range di effetti di molti farmaci, e pertanto né i medici né i pazienti possono prendere decisioni adeguatamente informate circa i rischi e i benefici del loro utilizzo.

* Joanna Moncrieff senior lecturer, Department of Psychiatry and Behavioural Sciences, University College London, London W1N 8AA

** David Cohen professor, School of Social Work, Florida International University, Miami FL 33199, USA

Bibliografia

1 Moncrieff J. The myth of the chemical cure: a critique of psychiatric drug treatment. Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2008.

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20 Moncrieff J, Cohen D, Mason JP. The subjective experience of taking antipsychotic medication: a content analysis of internet data. Acta Psychiatr Scand 2009 Feb 12 [Epub ahead of print].

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