Davvero l’industria farmaceutica ha abbandonato la ricerca in psichiatria?

Antonio Maone

Da Nature, Dicembre 2011: “Anche la Novartis, come altre grandi aziende farmaceutiche, sta abbandonando i programmi tradizionali di ricerca finalizzati a individuare trattamenti per i disturbi mentali. Nature ha appreso che l’azienda sta chiudendo i laboratori di neuroscienze a Basilea (Svizzera).

Decisioni analoghe sono state prese dalla GlaxoSmithKline e dalla Astrazeneca, che l’anno scorso hanno annunciato la chiusura di tutte le loro divisioni di ricerca nelle neuroscienze. Anche le companies con sede negli USA Pfizer e Merck, così come la francese Sanofi, hanno rinunciato alla ricerca sui farmaci psicotropi. […]

Individuare e sviluppare farmaci per il sistema nervoso centrale è diventata un’attività ad alto rischio, con molte molecole che vengono abbandonate dopo anni di costosi trial clinici. Il mercato è già inondato di antidepressivi generici e a buon mercato, antipsicotici e altri farmaci che agiscono su target noti, prevalentemente recettori di neurotrasmettitori. Ciò ha indotto le companies a cercare target radicalmente nuovi, ma la ricerca si è rivelata difficile, dato che poco è noto della biologia del cervello e dei suoi disturbi.

‘Gli approcci standard per lo sviluppo di farmaci psicotropi non ha dato frutti significativi negli ultimi vent’anni’, sostiene Ken Kaitin, Direttore del Tufts Center for the Study of Drug Development (Boston, Massachusetts). ‘Ma è un dilemma per le aziende, perché c’è un vasto e crescente mercato per questi prodotti’. I disturbi mentali comportano il più alto carico di malattia a livello mondiale e i trattamenti attualmente disponibili non funzionano adeguatamente per la maggior parte dei pazienti.” [1]

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In realtà ci sono state molecole in fase di sperimentazione negli ultimi anni, ma in esse si trovano farmaci già approvati per altre indicazioni negli anni ’90, come è stato il caso degli antipsicotici di seconda generazione (Risperdal, Seroquel) riproposti per la depressione. A questo proposito, Steven Hyman (di cui si parlerà più avanti) afferma: “Le persone con depressione possono avere ansia e agitazione, e perciò l’aggiunta di piccole dosi di antipsicotici possono migliorare quei sintomi. Ma ciò non significa necessariamente che questi farmaci abbiano un effetto sui sintomi nucleari della depressione; anzi, sarebbero da considerare effetti collaterali.” [3]

Una delle ragioni della carenza di innovazione è di natura storica. Negli anni ’80 e ’90, l’industria farmaceutica aveva realizzato che avrebbe potuto guadagnare miliardi di dollari con farmaci che non erano altro che delle copie leggermente diverse di farmaci preesistenti già approvati, in particolare gli antidepressivi SSRI come il Prozac. Dice a questo proposito William Potter, ex Vice President for Neuroscience della Merck: “L’investimento in molecole realmente nuove non è stato così alto come avrebbe potuto essere, perché potevi fare un sacco di soldi attraverso la strategia del me-too [si tratta di una strategia di marketing che consiste nel proporre qualcosa di nuovo che in realtà è solo una versione leggermente o superficialmente modificata di un prodotto preesistente, ndr]. D’altra parte, “la maggior parte delle aziende hanno grosse difficoltà”, continua Potter, “perciò devono essere più prudenti. Non puoi chiedere alle aziende di buttare soldi in qualcosa che rischia di non essere remunerativo”. [3]

Fra le posizioni che hanno destato più clamore, in merito a questa situazione, c’è per esempio quella di Richard Alan Friedman, Professore di Clinica Psichiatrica al Weill Cornell Medical College e Direttore della sezione di Psicofarmacologia alla Payne Whitney Psychiatric Clinic, esperto in particolare del trattamento farmacologico dei disturbi di personalità e della depressione resistente.

(vedi: http://en.wikipedia.org/wiki/Richard_A._Friedman).

In un articolo apparso sul New York Times nell’agosto 2013 [4], Friedman afferma:

“Un americano su cinque assume almeno uno psicofarmaco, ma ciononostante stiamo assistendo a una crisi dell’innovazione farmacologica in psichiatria.

Certamente disponiamo di parecchi antidepressivi, antipsicotici, ipnotici ecc., ma la loro popolarità nasconde due problemi seri.

Primo, ognuna di queste classi di farmaci è composta in realtà da molecole che sono essenzialmente copie l’una dell’altra; abbiamo sei antidepressivi SSRI che fanno in pratica le stesse cose, e questo vale anche per gli antipsicotici di seconda generazione.

Secondo, i farmaci di cui disponiamo lasciano molto a desiderare: i pazienti con malattie come schizofrenia, depressione maggiore, disturbo bipolare, non rispondono adeguatamente o non riescono a tollerare gli effetti collaterali.

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A Dry Pipeline for Psychiatric Drugs – By RICHARD A. FRIEDMAN, M.D. Published: August 19, 2013

Sebbene circa il 25% degli americani soffra di un disturbo mentale diagnosticabile, ci sono pochi segnali di innovazione da parte delle maggiori industrie farmaceutiche.

Dopo una serie di trial che hanno dato esito negativo, nei quali antidepressivi e antipsicotici hanno fatto poco o non meglio del placebo, le companies farmaceutiche sembrano aver concluso che lo sviluppo di nuovi farmaci è troppo rischioso e dispendioso. Questa tendenza è apparsa evidente al meeting dell’ American Society for Clinical Pharmacology and Therapeutics del 2011, dove solo 13 su 300 abstract erano relativi alla psicofarmacologia e nessuno di essi riguardava nuove molecole.

[Questa situazione sembra essere ubiquitaria: nel 2010, al Collegium Internationale Neuro-Psychopharmacologicum, solo 8 su 870 abstracts riguardavano la psicofarmacologia, e solo 4 riguardavano "meccanismi d'azione nuovi o relativamente nuovi", ndr].

Le companies, invece, stanno investendo la maggior parte del budget della ricerca su malattie quali il cancro, le malattie cardiovascolari e il diabete, per le quali si dispone di marker biologici ben precisi e più facili da studiare rispetto ai disturbi mentali.

Tutti gli attuali farmaci antidepressivi, antipsicotici e ansiolitici condividono gli stessi target molecolari fin dagli anni ’50. Per esempio, i nuovi antipsicotici bloccano i recettori della dopamina in regioni critiche del cervello, esattamente come la Clorpromazina, sintetizzata nel 1950. E tutti gli attuali antidepressivi fanno aumentare i livelli di uno o più neurotrasmettitori come serotonina, dopamina o noradrenalina, esattamente come i vecchi antidepressivi triciclici.

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Spese per ricerca e sviluppo (in azzurro) e numero di farmaci approvati (in rosso)

Con rare eccezioni, è arduo sostenere che anche una sola molecola realmente nuova sia emersa dalla ricerca negli ultimi trent’anni. E’ vero che i nuovi farmaci psicotropi sono generalmente più sicuri e più tollerati dei vecchi prototipi, tuttavia non sono più efficaci. Dunque, perché l’industria farmaceutica continua a sfornare così tanti duplicati dello stesso farmaco?

La risposta è semplice: non abbiamo ancora compreso le cause della maggior parte dei disturbi psichiatrici; in parte perché il cervello è eccezionalmente difficile da studiare: non possiamo fare biopsie del cervello e analizzarle. Questo è il motivo per cui per i ricercatori è così difficile individuare nuovi target per i farmaci psicotropi.

Inoltre, conoscere il meccanismo d’azione di un farmaco non necessariamente significa scoprire la causa della malattia. Per esempio, il fatto che un antidepressivo SSRI faccia aumentare la serotonina nel cervello e migliori l’umore non significa che una carenza di serotonina sia la causa della depressione. Molti pazienti depressi stanno meglio anche con farmaci che non hanno effetto sulla serotonina.

Fino a pochissimo tempo fa i ricercatori si sono basati unicamente sullo stesso modello animale per valutare l’effetto dei farmaci psicotropi che era stato utilizzato per decenni, e che prevedibilmente ha prodotto una valanga di farmaci che hanno lo stesso meccanismo d’azione delle vecchie molecole.

Certamente, questo vecchio metodo di ricerca ha prodotto successi commerciali come gli antipsicotici Seroquel e Abilify. Ma appena scade il brevetto, poco altro di nuovo resta in fase di sperimentazione.”

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Il rischio di fallimento nelle fasi di sperimentazione e di approvazione per gli psicofarmaci è molto elevato

 

Il Chief Executive della GSK, Andrew Witty, annunciando agli investitori e agli analisti nel 2010 queste decisioni che coinvolgono la ricerca sull’ansia, sul dolore e sulla depressione, affermava: “Crediamo che le probabilità di successo in queste aree sia relativamente bassa, e che il costo per conseguire questo successo sia sproporzionatamente alto.” [3]

A questo proposito Thomas Insel, Direttore del National Institute of Mental Health, dichiarava: “Il più grosso problema non sono gli annunci della GSK e dell’AstraZeneca, ma piuttosto il fatto che quando diamo uno sguardo alla pipeline [letteralmente: “oleodotto”; termine in uso per definire i farmaci ancora in fase di sperimentazione], vediamo ciò che le companies stanno realmente facendo nel campo dello sviluppo di nuovi farmaci per la psichiatria: ci sono pochissime nuove molecole, pochissime nuove idee, e quasi nulla che possa darci qualche speranza di una trasformazione nel trattamento delle malattie mentali” [3].

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E ciò accade proprio mentre in tutto il mondo questi disturbi sono sempre più riconosciuti e trattati dai sistemi sanitari, come affermava nel 2013 un’altra voce autorevole della psichiatria americana, Steven Hyman [vedi: http://en.wikipedia.org/wiki/Steven_Hyman] [3], che scrive inoltre:

“Molti individui con disturbi mentali restano sintomatici e spesso disabili nonostante gli attuali trattamenti. Per esempio, coloro che soffrono di una fase depressiva di un disturbo bipolare spesso continuano ad avere gravi sintomi, anche quando assumono diversi farmaci, e con seri effetti collaterali. Per molte condizioni disabilitanti, come quelle deficitarie nell’autismo e nella schizofrenia, semplicemente non ci sono trattamenti efficaci.”

Questa “fuga” dell’industria farmaceutica accade malgrado il fatto che “diverse classi di farmaci psicotropi si sono rivelati fra i prodotti più proficui per le aziende farmaceutiche nel corso degli ultimi decenni.” Ciò è successo con le benzodiazepine, poi con gli antidepressivi SSRI, e più recentemente con gli antipsicotici di seconda generazione, “che sono fra i prodotti a maggior fatturato a livello globale, nonostante i gravi effetti collaterali.” “Questo ritiro riflette la visione ampiamente condivisa che la scienza sottostante a questa area di ricerca è ancora immatura e che lo sviluppo di nuovi trattamenti è semplicemente troppo difficile e troppo rischioso.”

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Continua Hyman:

“I problemi scientifici cui deve far fronte la psichiatria quando tenta di applicare scoperte delle neuroscienze, della genetica e delle scienze psicologiche per comprendere la malattia e avanzare nei trattamenti, sono sconsolanti. Le basi cellulari e molecolari dei disturbi psichiatrici restano sconosciute; c’è un’ampia disillusione circa i modelli animali usati per decenni per predire l’efficacia terapeutica; le diagnosi psichiatriche appaiono arbitrarie e mancano di verifiche oggettive; e con ci sono biomarker validati con cui valutare il successo dei trial clinici. Ne risulta che le aziende farmaceutiche non vedono percorsi praticabili per la scoperta e lo sviluppo di trattamenti nuovi ed efficaci. Considerato il flusso costante di farmaci che hanno guadagnato l’approvazione negli ultimi anni per il trattamento della depressione, dell’ansia, della schizofrenia e del disturbo bipolare, sembrerebbe che l’attuale stallo della ricerca scientifica sia venuto fuori dal nulla. Tuttavia i pagatori (le compagnie di assicurazione e i governi) e le agenzie di regolazione non sono più disponibili ad accettare nuovi e più costosi farmaci che, malgrado la pressione del mercato, hanno dimostrato di non essere più che variazioni su vecchi temi. […]

Benché progressi significativi siano stati compiuti in termini di sicurezza e tollerabilità, perfino i più recenti antidepressivi non sono più efficaci dell’imipramina. Tutti gli antipsicotici, con l’eccezione della clozapina, hanno grosso modo la stessa efficacia della clorpromazina. La clozapina costituisce chiaramente un vantaggio per alcuni pazienti con schizofrenia e disturbo bipolare, laddove altri farmaci falliscono. Ma le basi della sua maggiore efficacia rimangono misteriose. Inoltre, i suoi gravi effetti collaterali ne limitano l’utilizzo.

Gli attuali farmaci antipsicotici, inclusa la clozapina, trattano solo una sottocategoria di sintomi della schizofrenia, come le allucinazioni e i deliri. Nessuno dei farmaci esistenti migliora i sintomi cognitivi, responsabili di gran parte della disabilità […]”.

Una posizione ancora più netta è quella sostenuta in un editoriale, apparso sul prestigioso Schizophrenia Bulletin, di Hans Christian Fibiger, uno fra i 200 più citati scienziati del mondo, in ogni campo. Fibiger nel 1998 ha lasciato la carriera accademica ed ha accettato l’incarico di Vice Presidente del Neuroscience Discovery Research and Clinical Investigation, presso la Eli Lilly and Company; in seguito ha svolto lo stesso incarico alla Amgen e poi ai Biovail Laboratories International; vedi: http://www.science.ca/scientists/scientistprofile.php?pID=154

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Prima di commentare il suo editoriale su Schizophrenia Bulletin, riportiamo degli interessanti estratti di una intervista che Fibiger aveva rilasciato nel dicembre 2003, nell’ambito di un’iniziativa dell’American College of Neuropsychopharmacology [5] .

Domanda: Ci saranno farmaci più clinicamente selettivi ed efficaci?

Risposta: Questa è la sfida. Ciò che voglio provare a fare è qualcosa di diverso da ciò che fa la gran parte delle industrie farmaceutiche. E’ triste constatare che l’attuale modello di business dell’industria farmaceutica non è praticabile. Non possono scoprire e sviluppare molecole in modo così rapido da soddisfare le aspettative degli investitori. Se vuoi far crescere il valore della tua azienda del 15% l’anno, che è ciò che Wall Street vorrebbe vedere, nessuno è capace di scoprire e sviluppare farmaci così rapidamente da soddisfare questi obiettivi. Mentre parliamo, la Bristol-Meyers ha enormi problemi, la Merck è in ginocchio, alla Schering non so cosa faranno, sono messi male. Fra tutte queste, direi che la Lilly finora ha la migliore pipeline.

D. La Lilly va bene?

R. Anche la Lilly avrà grossi problemi a partire dal 2010, perché nel 2011 perderà Zyprexa [ovvero scadrà il brevetto, ndr], una perdita fra i 4 e i 6 miliardi di dollari l’anno. Questa è l’aspettativa. E la Lilly, finora, non è stata in grado di rimediare a questa perdita attraverso prodotti innovativi. E questa è la situazione di tutta l’industria farmaceutica. Le spese di ricerca e sviluppo crescono, mentre la produttività, in termini di lancio di molecole, sta andando giù. L’investimento non sta producendo quanto avevamo sperato. Per diverse ragioni. E’ una faccenda piuttosto complicata. La morale della favola è che l’attuale modello di business non è sostenibile. Ciò su cui sto lavorando molto è cercare di pensare a come possiamo creare un nuovo modello, come sviluppare nuovi approcci allo sviluppo di nuovi farmaci per importanti malattie umane, tali da consentire la crescita di cui l’industria ha bisogno. E’ una questione molto, molto complicata, e io non ho tutte le risposte.

D. Un aiuto potrà venire dal campo dei farmaci psicotropi con end-points clinici con migliore validità predittiva?

R. Potrebbe essere utile. Credo che la società sia disposta a pagare per reali innovazioni. E penso che la gente sarà disposta a pagare per un farmaco di cui tu puoi dire in anticipo che funzionerà per il paziente. Il sogno del futuro è il genotipo. Tu determini, sulla base del genotipo, che ci sarà un’alta probabilità che il farmaco funzionerà o non funzionerà per quel particolare paziente. Quindi non c’è da perdere tempo e denaro nel cercare di dare il farmaco a qualcuno per il quale risulterà inefficace. Abbiamo visto il primo esempio di ciò nel trattamento del carcinoma mammario. Questo è il futuro. E la società, penso, sarà ben felice di pagare per questo tipo di innovazioni. Ma ciò richiede una combinazione di diagnosi e terapie, cosa che l’industria non sta facendo. […]

Si discute oggi di quanto la schizofrenia non sia un concetto utile per la ricerca. E’ troppo vago. Il modo in cui il DSM descrive la schizofrenia è tale che tu puoi avere due pazienti con schizofrenia che essenzialmente non condividono alcun sintomo. Questo può andare bene nella pratica clinica, perché non fa la differenza. Ma in ogni caso finora non abbiamo alcun trattamento differenziale. Ricordi la storia che la schizofrenia è il cimitero della neuropatologia? La schizofrenia sarà il cimitero della biologia molecolare. Sarà il cimitero della diagnostica per immagini. Sarà il cimitero di ogni tecnologia che puoi provare ad applicare, perché è semplicemente un concetto troppo nebuloso perché sia utile per obiettivi di ricerca e sviluppo. E’ incoraggiante, quindi, che si stia cominciando a prendere sul serio l’idea dell’endofenotipo. Perciò, focalizziamoci sui deficit cognitivi della schizofrenia, focalizziamoci sui sintomi positivi. La biologia di queste cose si sta rivelando differente e quindi i farmaci saranno differenti. Da qualche anno risuona il mantra che abbiamo bisogno di sviluppare molecole molto potenti, molto selettive, e che queste molecole saranno un buon trattamento della depressione, per esempio. Io non credo che ciò si avvererà. Io penso che molecole molto selettive andrebbero bene per trattare un aspetto di questa cosa che chiamiamo depressione, ma non la cosa intera. […]. Ricordiamoci, ci sono 17 recettori sulla cui attività gli SSRI hanno un impatto. Infatti un SSRI è un farmaco molto “sporco” perché le sue immediate conseguenze post-sinaptiche sono mediate da almeno 17 recettori noti.”

Dieci anni più tardi, Fibiger aprirà così il suo editoriale su Schizophrenia Bulletin [6]:

“La psicofarmacologia è in crisi. I dati sono sotto i nostri occhi ed è chiaro che un grande esperimento è fallito: nonostante decenni di ricerche e miliardi di dollari investiti, da oltre trent’anni non un solo farmaco con nuovo meccanismo d’azione ha raggiunto il mercato della psichiatria. Il riconoscimento di questa realtà ha già avuto profonde conseguenze sull’innovazione in psicofarmacologia, perchè quasi tutte le maggiori industrie farmaceutiche hanno ridotto grandemente o hanno abbandonato progetti di ricerca e sviluppo di nuovi psicofarmaci. Dato che non ci può essere un substrato biologico coerente per sindromi così eterogenee come la schizofrenia, non sorprende che la ricerca abbia fallito nell’individuazione di specifici bersagli molecolari utili per lo sviluppo di terapie basate su nuovi meccanismi d’azione.”

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Vendita di farmaci per il sistema nervoso centrale negli Stati Uniti nell’anno 2010: 80,5 miliardi di dollari

Nuove prospettive?

Considerato questo panorama non particolarmente incoraggiante e che riguarda il destino di milioni di persone e di famiglie, cosa si può prevedere?

Hyman si augura che i grandi sforzi che la ricerca genetica sta conducendo aiuteranno ad attrarre di nuovo l’industria farmaceutica indicando nuovi sviluppi, come del resto sostiene Fibiger, concludendo il suo editoriale:

“Non c’è altra scelta che cambiare il modo di approcciare lo studio dei meccanismi patogenetici, l’individuazione e lo sviluppo di nuove molecole in psichiatria. Ciò richiederà grandi investimenti della ricerca [quella accademica in primis, non dell’industria farmaceutica, ndr] nelle neuroscienze, umiltà, in considerazione della nostra ignoranza, e disponibilità a considerare la necessità di fondamentali riconcettualizzazioni della psichiatria stessa.”

Bibliografia

1. Abbott A. (2011) Novartis to shut brain research facility. Nature, 480, 161-162

2. Nutt, D. & Goodwin, G. (2011) Eur. Neuropsychopharmacol. 21, 495-499.

3. Miller G. (2010) Is Pharma Running Out of Brainy Ideas? Science, 329, 502-504.

4. Friedman R.A. (2013) A Dry Pipeline for Psychiatric Drugs. The New York Times, August 19, 2013.

5. http://d.plnk.co/ACNP/50th/Transcripts/Hans%20Christian%20Fibiger%20by%20Thomas%20A.%20Ban.doc

6. Fibiger, H.C. (2012), Psychiatry, the pharmaceutical industry, and the road to better therapeutics. Schizophrenia Bulletin, 38,  649-650.

One Thought on “Davvero l’industria farmaceutica ha abbandonato la ricerca in psichiatria?

  1. gian piero fiorillo on 1 dicembre 2014 at 11:23 pm said:

    Questo è un articolo importante, anche se poteva essere scritto vent’anni fa, e molti – qualcuno anche in Italia, avevano già detto parecchio, per esempio Giorgio Bignami o l’Istituto Mario Negri che in seguito si è adeguato a un andamento generale di prudenza e moderazione con molti tratti di pavidità; che il concetto di schizofrenia non fosse funzionale alla ricerca neurobiologica era chiaro da sempre, per esempio; o che la causa della depressione non fosse la scarsità di serotonina, e molto altro. Ci sarebbe da dire anche che la disabilità di molti pazienti peggiora nel tempo non “nonostante” i farmaci, ma proprio a causa dei farmaci. Insomma forse è venuto il momento di dire veramente tutto contro questo silenzioso crimine di pace che è la grande diffusione terapeutica degli psicofarmaci. E forse il vero modello da rimettere in discussione è quello che riduce ogni disagio psicologico a “malattia mentale”. Cioè, tornare al fondamento delle cose, rimettere in discussione la stessa psichiatria, ripartire da altri punti di vista. Finché il discorso resta interno alla medicina è difficile trovare soluzioni (non che uscendone sia facile, beninteso).

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