Dialogo Aperto: il modello finlandese di trattamento della schizofrenia

Chiara Tarantino*

Un articolo dal titolo Talking Back to Madness, apparso recentemente su Science a firma del noto giornalista scientifico Michael Balter, professore di giornalismo medico-scientifico già alla Boston University e attualmente alla New York University (Balter, 2014), ha provato a fare il punto sulla controversa situazione degli approcci psicoterapeutici alla schizofrenia.

Scrive Balter: “Oggi gli psicoterapeuti utilizzano due approcci principali alla schizofrenia. Il primo, la terapia psicodinamica, deriva dalle prime tecniche psicoanalitiche (…) e si focalizza sia sulle esperienze infantili sia sulla modalità attraverso cui i sintomi psicotici inconsciamente assolvono una funziona positiva per il paziente, ad esempio mascherando pensieri e sentimenti insopportabilmente dolorosi. (…) Il secondo approccio, la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è un metodo più breve e pragmatico che conduce il paziente attraverso una serie di step guidati, programmati per esplorare le diverse interpretazioni di ciò che sta sperimentando, con l’obiettivo di modificare pensieri e comportamenti”.

L’autore propone poi una breve rassegna di dieci recenti studi che riassumono lo stato dell’arte dell’efficacia psicoterapeutica di questi approcci alla schizofrenia: accanto ad una moderata efficacia della psicoterapia psicodinamica (Rosenbaum et.al, 2012) o della CBT (Morrison et al., 2014; Grant et al., 2012; Van der Gaag et al., 2012), spesso associate al trattamento farmacologico tradizionale, Balter cita il lavoro di Seikkula e collaboratori (Seikkula et al., 2011), che ha coinvolto 117 pazienti al primo episodio psicotico. Il lavoro dei ricercatori finlandesi, tra i dieci presi in esame, è l’unico a vantare una percentuale di guarigione dell’81% grazie ad un trattamento psicoterapeutico familiare intensivo che coinvolge anche la rete sociale del paziente. Questo trattamento è il Dialogo Aperto, elaborato nella Lapponia occidentale secondo i principi dell’approccio adattato al bisogno di Alanen e configuratosi successivamente come un approccio indipendente.

Il gruppo di ricerca finlandese diretto da Alanen si ispira alle tradizioni della psicoanalisi e della psicoterapia sistemico-familiare. L’inizio dell’esperienza risale al 1968, quando all’interno della Clinica di Psichiatria di Turku, nella Finlandia meridionale, prende il via il “Turku Schizophrenia Project”, un progetto di ricerca-intervento con l’obiettivo di sviluppare un modello di trattamento comprensivo destinato a pazienti schizofrenici e alle loro famiglie che potesse essere applicato all’assistenza psichiatrica pubblica. Definito “Approccio adattato al bisogno”, il modello include come elementi essenziali il lavoro di squadra, il training multi-professionale e la supervisione, e prevede incontri regolari con le famiglie dei pazienti sin dall’inizio del trattamento e persino prima dell’eventuale ricovero, in un contesto fortemente collaborativo. Inoltre il programma terapeutico si configura come altamente flessibile, prevedendo l’utilizzo di differenti metodi e strumenti, per venire incontro ai bisogni specifici di ciascun paziente. L’obiettivo di una terapia “su misura” delle psicosi schizofreniche nasce dalla constatazione della radicale eterogeneità delle forme cliniche della schizofrenia. Di fronte a questa estrema variabilità non ha senso continuare a considerare i trattamenti della schizofrenia come antitetici tra loro. Diventa necessario promuovere una loro integrazione conferendo peso diverso a ciascuna componente, a seconda dei casi. Riferendosi all’approccio di Alanen, Selvini nel 2005 ha scritto “la più interessante integrazione oggi esistente tra le tecniche psicoterapeutiche e le più tradizionali metodologie psichiatriche. (…) Di fatto oggi l’approccio finlandese rappresenta il più interessante ed efficace modello di servizio pubblico per il trattamento delle psicosi” (www.scuolamaraselvini.it) .

Sulla scia del lavoro di Alanen, a partire dal 1987 nella Lapponia occidentale ha preso avvio il sottoprogetto Western Lapland, in collaborazione con il dipartimento di psicologia dell’Università di Jyvaskyla. Il responsabile, Yaakko Seikkula, ha definito questo approccio che assume caratteristiche sue proprie, “Open Dialogue Approach”: Approccio del dialogo aperto.

[vedi: http://www.fioriti.it/libri/scheda.php?PHPSESSID=3D96=&idSezione=4&idLibro=204&idUser=]

L’obiettivo del progetto era di sviluppare un modello globale di trattamento psichiatrico centrato sulla famiglia e sulla rete sociale, attraverso il quale il paziente potesse essere aiutato all’interno (e con l’essenziale contributo) del suo personale sistema sociale di supporto. Il trattamento di rete implica una visione in cui il sistema familiare esteso è considerato agente e non oggetto del cambiamento. La rete attorno alla famiglia viene mobilizzata per agganciare nuove prospettive e idee sul problema, al fine di promuovere cambiamenti positivi. Questo nuovo approccio ha iniziato a funzionare in maniera consistente e completa a partire dalla metà degli anni Novanta, applicato al servizio sanitario pubblico, ed è oggi uno degli approcci terapeutici maggiormente studiati in Finlandia, oltre ad essere quello che attualmente sta registrando i risultati più sorprendenti per la cura della psicosi (l’84% dei pazienti è tornato attivamente alla propria vita sociale e lavorativa). Questi risultati sono stati confermati anche da uno studio che ha dimostrato una significativa diminuzione dell’incidenza annua della schizofrenia nella regione finlandese dopo l’implementazione del metodo Open Dialogue (da 33 nuovi pazienti l’anno su 100.000 abitanti nel 1985 a 2 nuovi pazienti l’anno su 100.000 abitanti nei primi anni del 2000). Allo stesso tempo è anche diminuita la proporzione dei casi di schizofrenia all’interno dello spettro dei disturbi psicotici, e questo indica che poche delle crisi iniziali si sono poi evolute in schizofrenia.

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Il modello di Seikkula è basato su 6 squadre mobili di intervento sulla crisi (per un territorio di 72000 abitanti) incaricate di organizzare e condurre il trattamento per ogni caso di esordio psicotico. La squadra è rappresentata da un gruppo multi-professionale composto da psichiatri, psicologi-psicoterapeuti, infermieri, operatori sociali e la sua mobilità interessa sia la disponibilità a effettuare visite domiciliari sia la cooperazione flessibile con le unità ospedaliere. Il team incaricato di un determinato caso organizza l’incontro di ingresso col paziente, la sua famiglia e gli altri membri chiave della sua rete sociale entro 24 ore dal primo contatto del paziente con il servizio e si assume la responsabilità di analizzare il problema, pianificare il trattamento e accompagnare quel nucleo familiare per l’intero periodo necessario alla guarigione del paziente, in qualsiasi setting (ambulatoriale o ospedaliero). Disporre un aiuto immediato e tempestivo consente di evitare l’ospedalizzazione ogni qualvolta è possibile, mentre assicurare la continuità psicologica e di presa in carico rende più flessibili i confini tra strutture e tipi di trattamento differenti, contribuendo a stabilire un’efficace alleanza e prevenire i drop-out. Questa modalità di organizzazione implica che il paziente psicotico partecipa sin dal principio agli incontri, anche durante il periodo di crisi più intensa.

Tutte le persone coinvolte negli incontri divengono potenziali partner competenti nel processo di analisi, di pianificazione e di cura. Nell’area tra i partecipanti al dialogo ognuno esprime, con la propria voce, la personale visione del problema e si genera una nuova comprensione condivisa che va al di là della cognizione che ogni singolo partecipante, inclusi i membri dello staff, può avere della crisi attuale. Il team non pianifica anticipatamente i temi dell’incontro, che scaturiscono invece naturalmente nel momento presente, assecondando la “pressione” esercitata dalla presenza di tutti gli attori coinvolti. Tutto ciò che riguarda il percorso terapeutico è discusso apertamente, in presenza di tutti, e non ci sono riunioni separate per i membri dell’equipe: il team ritaglia momenti specifici per le conversazioni riflessive al suo interno durante le quali discute idee,affermazioni e osservazioni, mentre la famiglia ascolta.

Il metodo Dialogo Aperto rappresenta un importante contributo per allargare e approfondire le possibilità delle terapie basate sul dialogo e invita a ripensare la schizofrenia come una “crisi del linguaggio”, un modo singolare, tragico e distruttivo di affrontare una crisi, un evento terrificante e alienante della vita del paziente.

Il concetto di psicosi cui fanno riferimento gli autori del Dialogo Aperto trova le sue radici nella tradizione scandinava (forse negletta) delle psicosi psicogene e in particolar modo nelle teorizzazioni di autori quali Wimmer, Strömgren e Retterstøl. Il concetto di psicosi psicogena o reattiva fu introdotto da Wimmer in una monografia scritta nel 1913 intitolata “Forme psicogene di malattie mentali” e pubblicata per la prima volta in danese nel 1916. Questa monografia ha riscosso notevole successo tra gli psichiatri scandinavi ma è rimasta praticamente ignota in tutti gli altri Paesi europei fino alla pubblicazione, nel 2003, della traduzione inglese ad opera di J. Schioldann. In questa presentazione Wimmer affermava che le psicosi psicogene erano “psicosi clinicamente indipendenti (distinte dalla schizofrenia e dalla psicosi maniaco depressiva) causate da fattori mentali o traumi emotivi, generalmente su un terreno predisposto; tali traumi determinano l’insorgenza, il decorso e la fine della psicosi e inoltre la forma e il contenuto della psicosi stessa riflettono il trauma in modo significativo, più o meno direttamente e comprensibilmente”. Il termine “psicogeno” per Wimmer era ideale per descrivere questi disturbi, perché si riferisce sia al contenuto sia alla carica emotiva del trauma (tale nozione rimanda a quella di “ideogenia” usata da Charcot per riferirsi alla psicogenesi dei sintomi isterici a partire da una determinata idea o rappresentazione mentale).

Sul piano nosografico l’autore si riferisce a due raggruppamenti di patologie: le sindromi affettive (che comprendono depressione psicogena, eccitazione psicogena e stati stuporosi) e reazioni paranoidi (di tipo prevalentemente persecutorio o espansivo).

Il concetto di Wimmer fu successivamente elaborato da Strömgren (1974) che individua le componenti basilari delle psicosi psicogene: un adeguato trauma mentale, una stretta correlazione temporale tra il trauma e l’insorgere della psicosi, la determinazione, da parte del trauma, del contenuto della psicosi e una relazione tra il corso della psicosi e la situazione traumatica.

Retterstøl (1987) ha affermato che “ Tanto più grave è lo smacco alla consapevolezza di personalità tanto è più probabile che compaia una reazione paranoica o paranoide (…) Tanto più si tratta di una situazione vissuta tanto meno la consapevolezza di personalità sembra affetta, e maggiore è la probabilità che il quadro clinico sia di tipo prevalentemente affettivo”.

E’ interessante sottolineare che l’opera di Wimmer rappresentò una rottura epistemologica rispetto alla dottrina kraepeliniana e si inseriva proprio in quella fase di reazione all’indirizzo clinico-nosografico che iniziò ad operare a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. In contrapposizione al criterio di uniformità (di quadro clinico, decorso ed esito) descritto da Kraepelin, Wimmer proponeva una categoria variegata di fenomeni psicoreattivi connessi a fattori emozionali e interpersonali, che non culminavano nell’esito comune della schizofrenia, considerato allora come il deterioramento mentale. Tuttavia il tentativo di dimostrare l’esistenza di un raggruppamento unitario e la definizione quindi di una categoria autonoma di psicosi psicogene fallì.

Questa diagnosi, che potrebbe avere un rilevante significato clinico e costituire un prezioso aiuto ai professionisti per la valutazione di specifici casi, rappresenta oggi una “specie in estinzione”, ma continua ad essere fiorente nei Paesi nordici, in particolare in Finlandia dove i concetti di trauma, crisi, reazione ad eventi di vita ritornano con forza nei lavori di Seikkula e del suo team.

“ (…) Aprire le porte ai dialoghi aperti per me ha significato prestare maggiore attenzione e interesse alla qualità intersoggettiva della vita umana nel suo complesso. Come essere viventi siamo esseri relazionali, nasciamo nelle relazioni e abbiamo la necessità primaria di essere ascoltati e di essere presi sul serio. Quando, dopo una crisi, i pazienti ritornano a relazioni dialogiche il nostro lavoro è terminato”. (Seikkula, 2011).

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Jaakko Seikkula

La terapia del Dialogo Aperto rappresenta il tentativo di restituire senso e spazio al non-senso, cioè a quegli eventi di vita inconciliabili nella propria storia personale. L’obiettivo di ridurre l’isolamento del paziente è perseguito focalizzandosi sul dialogo e creando i contesti adatti e le relazioni ideali che lo incoraggiano e sostengono. Il dialogo è considerato lo strumento attraverso il quale è possibile verbalizzare e significare i traumi vissuti piuttosto che esprimerli sotto forma di deliri e allucinazioni e quindi recuperare un senso di agentività nella propria vita. Il compito dei terapeuti dialogici non è quello di insegnare al paziente e la sua famiglia come affrontare la crisi che sta vivendo, ma di negoziare i significati particolari che la crisi ha assunto per ciascuno. Un sistema di trattamento pensato e organizzato in modo dialogico, ascoltando contemporaneamente le varie voci del sistema interazionale, ha dimostrato di essere efficace nel trattamento dei gravi problemi psicotici.

Come risultato, l’organizzazione del trattamento psichiatrico nella Lapponia Occidentale è profondamente mutata. Invece di costituire una cura ospedalizzata, il trattamento psichiatrico per la maggior dei pazienti psicotici avviene principalmente all’esterno dell’ospedale, in collaborazione con la rete sociale, attraverso visite domiciliari. Ancor più importante, questo nuovo sistema ha prodotto un cambiamento positivo proprio nella mentalità dell’utilizzo dei servizi di salute mentale, che si riflette nella generale tendenza a un rapido avvio del trattamento. Il training in terapia familiare e individuale per tutti i membri dello staff ha portato a considerare la psicosi da un punto di vista psicologico e sistemico, e non più solo psicopatologico: l’intero sistema di trattamento si è orientato maggiormente verso i bisogni di paziente, famiglia, e sistema relazionale.

L’esperienza finlandese ha il grande merito di richiamare l’attenzione sull’idea dei trattamenti integrati, multidisciplinari e multi professionali. I vari tentativi storici di giungere a un approccio efficace per la cura della schizofrenia hanno condotto a un’unica certezza assoluta: i diversi trattamenti, presi singolarmente, non hanno condotto a risultati chiari e incontrovertibili. Ognuno di essi ha un anello mancante. Terapia farmacologica, psicoterapia individuale, terapia sistemico-familiare, trattamenti riabilitativi o psicoeducativi si scontrano tutti con un limite poiché non prendono in considerazione globalmente la complessità della patologia schizofrenica.

“ (…) Ciò che mi ha sorpreso in questi anni è l’enorme difficoltà che i terapeuti, anche esperti, incontrano nell’adottare un metodo di lavoro dialogico con i loro pazienti. Il dialogo non è un metodo, è uno stile di vita. E’ una delle prime cose che apprendiamo e per questo è molto semplice. La sua essenziale semplicità tuttavia sembra essere, paradossalmente, la sua difficoltà. E’ così semplice che non possiamo credere che l’elemento terapeutico di qualsiasi pratica sia semplicemente essere ascoltati, ricevere risposte e dialogare; quando questo si realizza, in realtà, il nostro lavoro terapeutico è terminato, perché i nostri clienti, raggiungendo la capacità di dialogare tra loro, sono tornati ad essere agenti delle proprie vite. (…) Come professionisti dobbiamo imparare a seguire il modo di vivere e il linguaggio dei nostri clienti, completamente, interamente, senza eccezioni o pregiudizi. Non è facile. Ma questo secondo me è il vero cambiamento”. (Seikkula, 2011).

*Psicologa clinica, Università di Urbino

Bibliografia

Alanen, Y.O. (1997). Schizophrenia. Its origins and Need-Adapted Treatment. London: Karnac Books.

Balter, M. (2014) Talking Back to Madness. Science, Vol. 343 no. 6176 pp. 1190-1193

Retterstøl N., (1978). The Scandinavian concept of reactive psychosis, schizophreniform psychosis and schizophrenia. Psychiatria clinica, Vol.11, 180-187.

Retterstøl N., (1987). Present state of reactive psychoses in Scandinavia. Psychopathology, Vol. 20, 68-71.

Seikkula, J. (a cura di Chiara Tarantino) (2014) Il Dialogo Aperto. L’approccio finlandese alle gravi crisi psichiatriche. Giovanni Fioriti Editore.

Strömgren, E. (1974) Psychogenic Psychoses. In Hirsch, S. Shepherd, M. Themes and variations in European Psychiatry. Bristol, John Whright and Sons.

Wimmer A. ( tradotto da Schioldann, J.) (2003) Psychogenic Psychoses. Adelaide Academic Press.

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