Il Recovery per il futuro della psichiatria

di Benedetto Saraceno

Recensione al volume Recovery. Nuovi paradigmi per la salute mentale. A cura di Antonio Maone e Barbara D’Avanzo. Raffaello Cortina Editore, 2015. Da Ricerca&Pratica, 2015; 31: 128-130.

Mi è piaciuto provare a leggere il libro di Maone e D’Avanzo comparando il modello-paradigma della deistituzionalizzazione versus il modello-paradigma del Recovery. Due modelli storicamente e geograficamente diversi: uno eminentemente italiano, l’altro anglosassone. Quattro brevi considerazioni: La deistituzionalizzazione è un processo critico, dotato di una forte componente distruttiva; distruttiva dei paradigmi della psichiatria, distruttiva del paradigma e del luogo fisico che è il manicomio, e dunque con una forte connotazione “destruens” piuttosto che “construens”. Potremmo dire che Basaglia ha soprattutto identificato il grande fattore di rischio per le persone che soffrono di una malattia mentale grave ossia la Psichiatria stessa.

Vi è inoltre una forte connotazione collettiva nel modello di deistituzionalizzazione in quanto essa avviene perché un collettivo decide di metterla in pratica. Il modello del Recovery è invece fortemente connotato da una attitudine molto propositiva, ossia da una componente orientata alla costruzione di paradigmi nuovi, di strategie nuove di intervento, ma ha una forte connotazione individuale: il Recovery ha soprattutto molto a che fare con il modo con cui l’operatore della psichiatria si confronta con la domanda. Certamente poi questo ha anche un impatto sull’organizzazione dei servizi, ma non c’è dubbio che il processo di deistituzionalizzazione ha un impatto piú diretto e radicale sulla organizzazione di servizi e regola i conti col passato della psichiatria in modo collettivo.

Il modello del Recovery non regola tanto i conti col passato (e presente) della psichiatria, ma piuttosto apre un nuovo conto per il futuro della psichiatria. L’assunto implicito del modello della deistituzionalizzazione è “noi restituiamo al paziente le sue capacità di autodeterminarsi”, affinché egli conquisti un proprio percorso: la riabilitazione psicosociale si costituisce come modello referenziale. L’assunto implicito del modello di Recovery è invece “dobbiamo riformulare gli interventi psichiatrici di modo che essi perdano quelle caratteristiche autoritarie che ne impediscono la riorientazione a un modello di Recovery”. Questa differenza di assunti andrebbe esplorata e analizzata. Il modello della deistituzionalizzazione assume che “io lo so e io te lo dico” con alcune connotazioni e rischi di atteggiamenti “coloniali” nei confronti dei pazienti: prima c’erano psichiatri cattivi che legavano al letto, adesso ci sono psichiatri buoni che slegano. Ossia: “noi sappiamo cosa ti fa bene”, affermazione tanto vera quanto anche rischiosa. La dimensione del “noi sappiamo bene che cosa ti serve” è in qualche modo anche un po’ autoritaria e rischia di sostituire all’autoritarismo della cattiva psichiatria quello della buona psichiatria. Se questo potrebbe essere un limite del modello della deistituzionalizzazione, non c’è dubbio che il limite nel modello del Recovery è invece quello della perdita della capacità di essere conflittivi col modello della psichiatria. Con il modello Recovery il paziente acquista una forte empowerment però lascia che la psichiatria non venga più rimessa in discussione come fu messa in discussione dal modello della deistituzionalizzazione.  Ci sono degli arricchimenti che derivano da entrambi i modelli, ovviamente. C’è un arricchimento che viene dal modello della deistituzionalizzazione ed è quello di un radicale sguardo critico non solo sui luoghi della psichiatria (la vergogna del manicomio, il suo superamento e la promozione dei diritti), ma anche una riflessione critica sull’impianto diagnostico e sulla totale incapacità predittiva della diagnosi: il modello della deistituzionalizzazione rimane la piú coerente e articolata sfida al modello biomedico della psichiatria. Vi è però anche un arricchimento che deriva dal modello del Recovery ed è quello di un processo radicale di empowerment dei pazienti. I pazienti del modello della deistituzionalizzazione erano “empowered” in forma indiretta, ossia beneficiavano dei processi di trasformazione promossi dal movimento della deistituzionalizzione; ma vi è sempre un rischio quando è qualcun altro che ti garantisce che avrai un beneficio. Nel modello del Recovery l’empowerment del paziente è piú diretto ed è il paziente stesso che decide che cosa lo beneficia e che cosa non lo beneficia. Il modello della deistituzionalizzazione è stato certamente anche molto ideologico, tanto da essere sostanzialmente ostile a qualunque tentativo di valutazione da parte degli approcci della evidence based science. Questa dimensione conflittiva è anche stata la sua forza: una forza molto latina poiché il movimento della deistituzionalizzazione non solo è nato in Italia, ma ha avuto punte alte in Spagna, in Brasile, in Portogallo; mentre nei paesi anglosassoni si è sviluppato meno e con minore passione conflittiva. Al contrario, il movimento del Recovery ha una caratterizzazione culturale con una forte connotazione apolitica, molto mediativa e certamente molto anglosassone. Si tratta di due grandi modelli che hanno consentito gli sviluppi piú significativi della psichiatria negli ultimi 50 anni: abbiamo grandi debiti nei confronti di entrambi i modelli ed è necessario attraversarli entrambi senza metterli in posizione antagonista. Sono due modelli molto importanti che esprimono una forza epistemologica e pratica anche se entrambi mostrano fragilità epistemologiche e pratiche altrettanto importanti.

Concludo con un grande “grazie” ai due curatori (e in parte autori), non solo per aver permesso di avere in Italia un libro che ci permette queste riflessioni, ma anche di aver avuto la capacità e il prestigio di raccogliere contributi teorici importanti di autori italiani e stranieri altamente significativi nella letteratura dedicata al Recovery.

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