Psicofarmaci: luci ed ombre. E’ tempo di un ripensamento? Aggiornamento sugli psicofarmaci per utenti e familiari. Istituto Mario Negri, Milano, 3 giugno 2014

Barbara D’Avanzo 

Articolo pubblicato su Ricerca&Pratica, 2014 Vol. 30 N. 5 :222-232  http://www.ricercaepratica.it

Indagine su un’epidemia, di Robert Whitaker (Giovanni Fioriti Editore, 2013), ha riproposto con chiarezza alcuni paradossi del progresso in ambito psicofarmacologico, rinnovando l’insuperata e dolorosa ambivalenza di familiari e utenti rispetto alla funzione degli psicofarmaci nella cura delle malattie mentali.

Di fronte a questa ultima sollecitazione critica è arrivata ancora una volta dai familiari e dalle loro associazioni la richiesta di “capirci qualcosa”. Il Laboratorio di Epidemiologia e Psichiatria Sociale dell’IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri ha accolto questa richiesta, organizzando in collaborazione con l’Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute mentale (UNASAM) una giornata seminariale dedicata ad utenti e familiari in cui i nodi cruciali sono stati ripresi da diversi punti di vista.

Nel suo discorso di benvenuto, il Professor Garattini ha ricordato come dal Symposium on Psychotropic Drugs tenutosi a Milano nel 1957, i progressi significativi nella cura farmacologica dei disturbi mentali siano stati limitati. A questo è corrisposto un progressivo e marcato disinvestimento da parte delle case farmaceutiche nella ricerca di nuove molecole, associato alla scarsità di finanziamenti pubblici dedicati alla ricerca in salute mentale. Nell’ambito degli interventi riabilitativi e psicologici il denaro a disposizione è ancora meno, e manca completamente un’azione congiunta di più forze che serva a sensibilizzare all’importanza degli investimenti nella ricerca in salute mentale e sia in grado di attrarre finanziamenti.

Alberto Parabiaghi, del Laboratorio di Epidemiologia Sociale dell’Istituto Mario Negri, ha spiegato l’evoluzione della ricerca sugli antipsicotici. Questa si è sostanzialmente svolta attorno ad un ipotetico disequilibrio nel sistema nervoso centrale della dopamina, un neurotrasmettitore che, assieme ad altri (serotonina e noradrenalina), regola le funzioni del sistema nervoso centrale. La “ipotesi dopaminergica” ha così visto diverse formulazioni: la prima metteva al centro il concetto di eccesso di trasmissione della dopamina come meccanismo all’origine delle psicosi. La seconda formulazione identificava il disequilibrio tra attività dopaminergica ridotta nell’area prefrontale e attività aumentata nell’area subcorticale. Questo sembrava poter spiegare le diverse manifestazioni cliniche dei sintomi positivi (allucinazioni e deliri) e negativi (ritiro, deterioramento cognitivo) tipici della schizofrenia. La terza e più recente versione si compone di conoscenze derivanti anche da nuovi strumenti di studio del funzionamento del cervello e crea un quadro assai più complesso: la mancata risposta clinica ai farmaci potrebbe dipendere dal fatto che essi agiscono a livello sinaptico, mentre i meccanismi eziopatogenetici della psicosi si svolgerebbero a livello presinaptico (ovvero a monte dell’attività dei neurotrasmettitori). I meccanismi eziopatogenetici sarebbero influenzati sia da fattori di origine esterna, come lo stress o le difficoltà sociali e relazionali, che di origine interna, come la disfunzione del sistema del glutammato, un altro neurotrasmettitore. L’importanza di questo passaggio è evidente perché in quest’ultima formulazione si chiarisce che il possibile meccanismo causale dei sintomi della schizofrenia si colloca a livello presinaptico e non sinaptico o postsinaptico, livello al quale agiscono i farmaci al momento disponibili. Diventa inoltre chiaro che tutte le formulazioni finora tentate si limitano a spiegare come i farmaci producono gli effetti che effettivamente producono, e non spiegano di fatto il meccanismo eziologico della malattia (Howes e Kapur, 2009).

Questa più complessa ipotesi eziologica della malattia non può supportare l’idea che esista una familiarità su base genetica delle psicosi. In realtà, tale ipotesi può solo spiegare l’esistenza di una vulnerabilità familiare ad una serie di disturbi psichici e non è quindi in grado di stabilire un nesso diretto tra un dato corredo genetico e l’insorgenza di un disturbo specifico. Inoltre, essa identifica l’importante ruolo causale di fattori esogeni che poco hanno a che fare con la familiarità su base genetica.

Ma qual è il nesso tra base biologica dell’azione del farmaco ed efficacia negli individui? Come ha spiegato Corrado Barbui, dell’Università di Verona, il farmaco funziona in modo notevolmente variabile sia a seconda delle caratteristiche della malattia che degli individui. Ogni persona risponde al farmaco in modo sostanzialmente diverso: in alcuni individui il meccanismo funziona solo in parte e in una minoranza di persone il meccanismo non funziona affatto. Bisogna tenere conto che, nella realtà, le persone assumono il farmaco in modo diverso e spesso irregolarmente. E’ frequente che siano presenti altre malattie per le quali vengono assunti altri farmaci, che però possono interferire con l’azione dell’antipsicotico. E’ per questa differenza nel modo di funzionare del farmaco nelle condizioni reali che possiamo conoscere molto meglio come funzionano nella realtà i farmaci vecchi di quelli nuovi, su cui si pongono speranze che non hanno ancora fatto i conti con le condizioni reali in cui i farmaci stessi vengono poi impiegati e con gli effetti collaterali osservabili solo nel tempo. I farmaci nuovi quasi sempre costano di più, senza che si sappia se il costo più elevato sia giustificato e se sul lungo periodo mantengano gli effetti positivi dichiarati alla loro immissione sul mercato.

Un altro aspetto cruciale, trattato da Angelo Barbato, del Laboratorio di Epidemiologia e Psichiatria Sociale dell’Istituto Mario Negri, è quello della natura probabilistica e mai assoluta della conoscenza sull’efficacia del farmaco. Come si fa a stabilire se e in che misura un farmaco funziona, e qual è il suo profilo costo-beneficio? Efficacia e tollerabilità non sono concetti assoluti, bensì relativi e prodotti all’interno di confronti. Ciò che è chiaro è che i risultati degli studi, per quanto rigorosamente condotti, devono venire verificati, replicati, confrontati, discussi. Non possiamo ritenere di avere nuove conoscenze se queste poggiano su un singolo studio o su più studi di qualità discutibile. Inoltre, l’interpretazione dei risultati di uno studio deve sempre distinguere tra differenza in termini statistici – che può essere dovuta all’amplificazione dell’effetto in un campione ampio, in cui anche differenze che clinicamente non hanno un reale impatto vengano enfatizzate – e differenza in termini clinici, dove l’attenzione è rivolta a cambiamenti che producono un effetto percepibile e con conseguenze apprezzabili sul piano clinico. Anche per questo, i trattamenti nuovi, non ancora studiati nella pratica e sul medio-lungo periodo non dovrebbero mai venire sopravvalutati. La risposta miracolistica o risolutiva da parte del farmaco risulta un’aspettativa non fondata.

Proprio perché non abbiamo certezze a priori su come un farmaco funzionerà nella singola persona con le sue specifiche caratteristiche patologiche, fisiologiche e comportamentali, Corrado Barbui sottolinea che è necessario condurre il ragionamento sulla singola persona: quali benefici ci aspettiamo da questo farmaco per questa persona? Come prevenire eventuali effetti negativi? Quando valutare l’importanza degli effetti collaterali e come integrarli nella revisione della scelta terapeutica? In questa valutazione articolata e progressiva della scelta terapeutica, il medico deve tenere conto della percezione degli effetti collaterali e dell’efficacia che ne ha il paziente. E’ frequente che medico e paziente non ne abbiano la stessa percezione. Questo richiama alla necessità non solo di uno stretto monitoraggio dei diversi effetti del farmaco, ma anche di un confronto serio e costante tra medico e paziente sulla prosecuzione dell’assunzione, sui dosaggi, sulle possibili alternative a quel farmaco o al farmaco in generale, all’interno di un rapporto di fiducia e reciproca collaborazione.

Beppe Tibaldi, del Dipartimento di Salute mentale della ASL TO1 e ricercatore del Centro Studi in Psichiatria della ASL TO2 di Torino, sottolinea come emerga con sempre maggiore chiarezza l’impatto negativo degli antipsicotici sulla salute fisica, soprattutto per gli effetti sul metabolismo e sul sistema cardiovascolare. Vi è di conseguenza un aumento della mortalità nel persone che assumono antipsicotici, legato anche ad altri fattori. Secondo una meta-revisione pubblicata nel giugno scorso su World Psychiatry la mortalità per schizofrenia è stimata essere due volte e mezzo quella della popolazione generale e l’aspettativa di vita è tra i 9 e i 20 anni più bassa di quella della popolazione generale (Chesney et al, 2014). L’eccesso di mortalità delle persone che assumono antipsicotici rispetto alla popolazione generale è essenzialmente dovuto a problemi cardiovascolari, metabolici e respiratori a cui contribuiscono significativamente, accanto al fumo e ad una dieta di qualità insufficiente, i farmaci stessi (Foley e Morley, 2011). Non a caso, il sottotitolo del libro di Whitaker è infatti Lo straordinario aumento delle disabilità psichiatriche nell’epoca del boom degli psicofarmaci. Si pensi, ad esempio, al caso della Russia, in cui la mortalità delle persone con disturbi mentali gravi è cominciata a salire bruscamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

Di fronte a queste considerazioni è allora necessario chiedersi se non venga sacrificato troppo al primato della terapia farmacologica nella cura delle malattie mentali gravi. Nel rapporto quotidiano del paziente con chi lo cura e con la sua malattia, quali risorse vengono sacrificate nel tentativo di raggiungere il benessere attraverso i farmaci, nell’idea che interventi di altra natura possano al massimo aggiungere qualcosa a – e mai sostituire – l’effetto del farmaco?

L’utilizzo prioritario e inevitabile degli psicofarmaci viene quindi messo in discussione lungo tre direzioni: da una parte rispetto alla sicurezza, con indicazioni consistenti della loro pericolosità. Su questo, un ricercatore di assoluta preminenza come Peter Tyrer, Editor del British Journal of Psychiatry, afferma: “I ricercatori hanno scoperto invece che gli psicofarmaci inducono – a livello cerebrale – delle reazioni adattative che producono uno “squilibrio chimico” compensatorio (analogo a quello che – inizialmente – si considerava potesse essere la causa del disturbo mentale)” E ancora: “Un trattamento farmacologico continuativo può dare origine a processi che vanno nella direzione opposta a quelli indotti inizialmente dal farmaco” (Tyrer, 2012). Altri risultati e pronunciamenti autorevoli a favore di un ripensamento profondo della terapia antispicotica, soprattutto all’esordio, si stanno facendo veramente numerosi (McGorry et al, 2013).

La seconda direzione è quella dell’efficacia sul lungo periodo: Wunderink e colleghi (2013) hanno mostrato che dopo due anni dalla randomizzazione di un gruppo di pazienti con psicosi ad un regime di mantenimento regolare o ad un regime discontinuo, il gruppo trattato col regime di mantenimento regolare aveva avuto meno ricadute del gruppo con trattamento discontinuo, ma a sette anni il vantaggio era ribaltato per quanto riguardava il funzionamento sociale e azzerato per quanto riguardava le ricadute. Questo studio suggeriva da una parte la necessità di riconsiderare in modo meno rigido l’utilizzo degli antipsicotici, ma anche quanto fuorviante possa essere usare la ricaduta, piuttosto che la qualità della vita e il funzionamento sociale per studiare gli esiti delle psicosi.

Infine, la terza direzione su cui viene messo in discussione l’uso degli psicofarmaci è quella che vede la “cultura del farmaco” interferire con la “cultura della soggettività” e della comprensione attiva della malattia da parte del paziente e di chi lo sostiene, familiare o operatore. La rilettura della propria malattia e della propria storia è qualcosa che può venire sistematicamente perseguito. La ricerca qualitativa, la scrittura autobiografica, la narrative research mostrano tutte quale sia il potenziale di un approccio qualitativo alla malattia, in cui venga valorizzata la comprensione che il paziente ha di se stesso e delle condizioni in cui la sua malattia si è prodotta e di quelle in cui potrebbe guarire o migliorare (Demetrio, 2006; Roberts, 2008).

Una visione completa del problema è stata offerta da Nicola Baccalini, dell’Associazione di utenti Il Club, di Milano, che ha chiarito che i farmaci sono solo una parte, per quanto necessaria, del trattamento. Il farmaco necessita di un lavoro attivo e paziente da parte della persona che lo assume perché possa adattarsi alle caratteristiche della persona stessa. D’altra parte, esso rimane comunque solo una parte della risposta alla malattia. Il livello su cui la patologia viene contrastata è un altro: “La patologia rimane e occorre lavorare su altre cose”. Queste devono configurarsi all’interno di una riflessione personale e di una mobilitazione di energie che deve sapersi servire di risorse diverse, da quelle offerte dai servizi di salute mentali a quelle reperite al loro esterno: “Io le ho trovate, ma non tutti hanno questa fortuna”.

Infine, Ernesto Muggia, presidente onorario dell’UNASAM, ha messo in luce una volta di più la difficoltà in cui si trovano i familiari: ”Si riscontra nei familiari un atteggiamento di dipendenza salvifica, di delega totale e acritica verso lo psichiatra che li prescrive, di severo controllo verso chi li deve assumere; questo anche perché si tratta di una posizione liberatoria dai sensi di colpa più o meno consapevoli che sempre accompagnano la presenza in famiglia di una persona sofferente di disturbi mentali e che è portatrice di stigma per sé e per la famiglia. Viceversa, seppure meno diffusa, è presente anche una certa avversione, non ben motivata se non da notizie incerte sulle conseguenze secondarie dei farmaci, da una preconcetta e ignorante avversione verso la scienza e la scientificità, da un robusto scetticismo alimentato dagli scarsi risultati positivi, dalla riscontrata diversità delle diagnosi e delle prescrizioni. Non ultima fonte di incertezze è ormai la possibilità di reperire su internet di tutto e di più, per chi voglia avventurarsi su questa strada.“

Alla luce di queste osservazioni, appare ancora più grave che momenti di confronto tra utenti, familiari, psichiatri e ricercatori come quello del 3 giugno scorso siano così poco frequenti. Utenti e familiari hanno bisogno di questi confronti per essere aiutati a credere nell’utilità dei modelli scientifici – quelli farmacologici e quelli psicologici e psicosociali – e nella possibilità di stare meglio. Medici e ricercatori ne hanno bisogno per verificare la reale tenuta delle loro conoscenza a confronto con l’esperienza di chi li utilizza e per esercitare la loro attività con maggiore consapevolezza. Mettere in discussione le conoscenze è parte del percorso di conoscenza stesso e tale ruolo non spetta solo agli esperti. Con questo obiettivo, l’Istituto Mario Negri vuole istituire un appuntamento fisso annuale analogo a quello qui descritto per mantenere vivo lo scambio e la diffusione critica della conoscenza sulla cura per le malattie mentali gravi.

Laboratorio di Epidemiologia e Psichiatria Sociale, Istituto Mario Negri, Milano

Bobliografia

Demetrio D. “La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali” Milano, Raffaello Cortina, 2008.

Foley DL, Morley KI. Systematic Review of Early Cardiometabolic Outcomes of the First Treated Episode of Psychosis. Arch Gen Psychiatry. 2011; 68:609-616.

Howes OD e Kapur S. The Dopamine Hypothesis of Schizophrenia: Version III—The Final Common Pathway

Schizophrenia Bulletin vol. 35 no. 3 pp. 549–562, 2009.

McGorry P, Alvarez-Jimenez M, Killackey E. AntipsychoticMedication During the Critical Period Following Remission From First-Episode Psychosis. Less Is More. JAMA Psychiatry 2013; 70: 898-900.

Roberts GA. Narrative and severe mental illness: what place do stories have in an evidence‐based world? Advances in Psychiatric Treatment 2000; 6:432–441.

Tyrer P. From the Editor’s desk. British Journal of Psychiatry 2012; 201:168.

Whitaker R. Indagine su un’epidemia. Lo straordinario aumento delle disabilità psichiatriche nell’epoca del boom degli psicofarmaci. Roma, Giovanni Fioriti Editore, 2013.

Wunderink L, Nieboer RM, Wiersma D, Sytema S, Nienhuis FJ. Recovery in remitted first-episode psychosis at 7 years of follow-up of an early dose reduction/discontinuation or maintenance treatment strategy: long-term follow-up of a 2-year randomized clinical trial [published online July 3, 2013]. JAMA Psychiatry

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