Una psichiatria al di là dell’attuale paradigma*

Pat Bracken**, Philip Thomas***, Sami Timimi**** et al.

Tratto da: Psicoterapia e Scienze Umane, 2013, XLVII, 1: 9-22   www.psicoterapiaescienzeumane.it  –  Articolo originale: Psychiatry beyond the current paradigm. British Journal of Psychiatry, 2012, 201, 6: 430-434

Cosa fa di uno psichiatra un bravo psichiatra? Quali specifiche abilità sono necessarie per praticare una “medicina della mente”? Sebbene sia impossibile rispondere in maniera esauriente a simili domande, riteniamo ci siano prove sempre più abbondanti del fatto che una buona pratica psichiatrica richieda in primo luogo un impegno con le dimensioni non tecniche del nostro lavoro, per esempio quelle relazionali, quelle che si rivolgono ai significati e ai valori.

6.coverFinora la psichiatria è stata guidata da un paradigma tecnologico che, pur non ignorando    questi aspetti della nostra pratica, ha dato loro una importanza secondaria. L’influenza di questo paradigma è ben visibile nell’importanza che abbiamo attribuito ai sistemi di classificazione descrittiva, a modelli causali riduttivi per la comprensione del disturbo mentale e alla frammentazione della cura psichiatrica in una serie di interventi discreti che possono essere analizzati e misurati in maniera indipendente dal contesto (Radden, 2008).

Negli ultimi anni il British Journal of Psychiatry ha pubblicato vari editoriali in cui si è sostenuto che la professione psichiatrica dovrebbe adottare un’identità biomedica e tecnologica ancora più marcata, e che gli psichiatri dovrebbero padroneggiare sempre meglio la tecnologia per consentire progressi nello sviluppo della ricerca sul cervello, della genetica, della farmacologia e della neuroradiologia (Craddock et al., 2008; Bullmore, Fletcher &Jones, 2009; Oyebode & Humphreys, 2011). Questi editoriali sono in sintonia con gli appelli che negli Stati Uniti chiedono che la psichiatria diventi semplicemente una sorta di “neuroscienza clinica” (Insel & Quiron, 2005). Tuttavia, la promessa di ottenere risultati terapeutici dalle neuroscienze sembra essere sempre spostata verso un futuro prossimo, e ciò porta alcuni a interrogarsi su quali possano essere i contributi delle neuroscienze al progresso della nostra disciplina (Kingdon & Young, 2007). Certo, gli stessi neuroscienziati sono diventati più prudenti per quanto riguarda il contributo di approcci riduzionisti alla comprensione della natura dei pensieri, delle emozioni e dei comportamenti umani (Rose, 2012; Vul et al., 2009). Vi sono poi numerose prove che dimostrano come le campagne contro lo stigma che colpisce le persone affette da gravi disturbi mentali basate su modelli biogenetici abbiano avuto effetti controproducenti (Angermeyer et al., 2011). L’attenzione crescente rivolta alle neuroscienze ha portato, nel corso del Novecento, a trascurare altri importanti sviluppi nei trattamenti per le persone affette da disturbi mentali. Questi sviluppi sono stati storicamente trainati da cambiamenti di natura per lo più non tecnologica, che hanno promosso l’empowerment e l’inclusione sociale (Slade, 2009). Vi è un generale consenso sul fatto che la chiusura dei grandi manicomi di era vittoriana ha migliorato la qualità di vita dei pazienti. Ma questo passaggio è stato dovuto principalmente a imperativi economici e alla crescente consapevolezza degli effetti negativi dell’istituzionalizzazione piuttosto che, come spesso viene suggerito, all’introduzione di nuovi farmaci (Gronfein, 1985; Aviram, Syme & Cohen, 1976).Sono emersi altri cambiamenti positivi grazie allo sviluppo di sistemi di cura multidisciplinari e di psichiatria di comunità, e alla nascita del movimento degli utenti psichiatrici e al volontariato. Molti psichiatri hanno lavorato duramente per promuovere questi sviluppi, ma l’attenzione crescente sugli aspetti tecnologici e biomedici della cura ha avuto l’effetto di far passare questo impegno in secondo piano.

 Il paradigma tecnologico

A partire dalle sue origini, che affondano le radici nei manicomi del XIX secolo (Porter, 1987), la psichiatria si è dovuta confrontare con una questione fondamentale: la medicina della mente può lavorare con la stessa epistemologia della medicina dei tessuti? Nel corso del XIX e XX secolo, la psichiatria si è fortemente appoggiata all’idea che i problemi della salute mentale siano compresi al meglio attraverso un linguaggio biomedico, e che i problemi inerenti a sentimenti, comportamenti e relazioni possano venire affrontati con gli stessi strumenti scientifici che impieghiamo per studiare i problemi che colpiscono fegato e polmoni. Negli ultimi decenni sono stati sviluppati modelli di psicologia cognitiva, come quello della “elaborazione dell’informazione”, che utilizzano il medesimo idioma tecnico (Harré & Gillett, 1994).

Il “paradigma tecnologico” che guida oggi la psichiatria incarna questa prospettiva, segue un orientamento positivista (Ingleby, 1980) e comprende i seguenti assunti:

 (a) I problemi della salute mentale sono causati da meccanismi o processi difettosi che implicano eventi fisiologici o psicologici anormali che colpiscono l’individuo.

(b) Questi meccanismi possono essere concepiti come causati da processi indipendenti dal contesto.

(c) Gli interventi sono spesso tecnologici e possono essere concepiti e studiati in maniera indipendente da relazioni e valori.

 Nel paradigma tecnologico, i problemi della salute mentale possono essere schematizzati e categorizzati con la stessa logica causale impiegata in altri campi della medicina, e il nostro intervento può essere concepito come una serie di trattamenti discreti, volti a curare sindromi o sintomi specifici. Le relazioni, i significati, i valori, le credenze e le pratiche culturali non sono ignorate ma hanno un’importanza secondaria. Questo ordine di priorità si riflette nella visione che la nostra categoria ha rispetto alla formazione di nuovi psichiatri, in ciò che viene pubblicato sulle riviste, negli argomenti scelti da portare ai convegni, nelle ricerche che vengono progettate e nel modo in cui concepiamo il rapporto col movimento degli utenti psichiatrici. Noi riteniamo che questo paradigma non abbia reso un buon servizio alla psichiatria. Una prassi che ignori le fondamentali questioni epistemologiche che stanno al cuore dei nostri modelli non porta alla loro scomparsa. Inoltre, non conduce a risultati che sono coerenti con le esigenze della medicina basata sulle evidenze (evidence-based). Sono in molti coloro che, interni ed esterni alla nostra professione, si stanno ponendo delle domande che sfidano la teoria e la pratica attuali. Per esempio, Marcia Angell (2011), che insegna ad Harvard e che ha diretto il New England Journal of Medicine, recentemente ha sferrato un duro attacco all’orientamento e alla pratica della psichiatria contemporanea (1). Il paradigma tecnologico sottolinea una tendenza alla medicalizzazione della vita quotidiana che a sua volta è associata all’espansione del mercato degli psicofarmaci. Ciò ha suscitato ampie critiche, anche da parte del capo della task force del DSM-IV (2010) (2). Questo processo ha portato anche alla corruzione di settori della psichiatria accademica attraverso il condizionamento delle case farmaceutiche, danneggiando la credibilità della professione (Carey & Harris, 2008).

La psichiatria oggi ha di fronte due sfide che non può ignorare. Primo, una crescente mole di prove empiriche dimostra la primaria importanza degli aspetti non tecnologici della cura psichiatrica. Se vogliamo essere onesti nel promuovere le pratiche evidence-based, allora dobbiamo prendere sul serio questi dati di ricerca. Secondo, una reale collaborazione con il movimento degli utenti psichiatrici può avvenire soltanto quando la psichiatria sarà pronta a superare il primato del paradigma tecnologico. Contrariamente alla linea espressa da recenti editoriali del British Journal of Psychiatry (Craddock et al.,2008; Bullmore, Fletcher & Jones, 2009; Oyebode & Humphreys, 2011; ecc.), noi sosteniamo che un reale progresso nel nostro campo non verrà dalle neuroscienze o dai farmaci (per quanto possano essere importanti) ma da un profondo riesame di cosa realmente sia la cura della malattia mentale e da un ripensamento di come sia possibile sviluppare vera conoscenza ed expertise nel campo della salute mentale.

Le evidenze empiriche che sfidano l’attuale paradigma

Molti dei nostri pazienti traggono beneficio dall’assistenza psichiatrica e riportano miglioramenti con i farmaci e con vari tipi di psicoterapia. Non vi è dubbio su questo. Ma come avvengono questi miglioramenti? Prenderemo prima in considerazione le prove del miglioramento terapeutico nella depressione e condizioni simili. Poi esamineremo le prove per i “disturbi mentali gravi” (locuzione che di solito indica la schizofrenia e il disturbo bipolare).

 Il cambiamento terapeutico nella depressione e condizioni simili

Vi sono prove molto forti che il miglioramento nella depressione è dovuto soprattutto agli aspetti non tecnologici degli interventi. Recenti meta-analisi di terapie farmacologiche per la depressione dimostrano che la differenza tra farmaco e placebo è minima (Andrews, 2001; Kirsch & Sapirstein, 1998; NICE,2009a; Fournier et al., 2010). Persino nei sottogruppi di pazienti che sono più gravemente depressi, dove le differenze riportate erano più significative, sono ancora piccole in termini assoluti e possono essere semplicemente l’effetto di una diminuita risposta al placebo (Kirsch et al., 2008)3. L’effetto placebo è un fenomeno complesso che riguarda esperienze consce e inconsce (Thompson, Ritenbaugh & Nichter, 2009; McQueen & St John Smith, 2010).Tra le altre cose, implica la mobilizzazione di un senso di speranza e di significato (Moerman, 2002), e pare che questo sia il principale meccanismo di funzionamento di questi farmaci. Anche gli effetti psicoattivi degli antidepressivi, come quelli sedativi degli antidepressivi triciclici e il distacco emotivo prodotto dagli antidepressivi SSRI (selective serotonin reuptake inhibitors), probabilmente contribuiscono alla performance di questi farmaci negli studi controllati randomizzati (randomized controlled trials [RCT]), e possono essere percepiti come utili da alcuni pazienti e non da altri. In generale, le prove disponibili non supportano l’idea che gli antidepressivi funzionano correggendo un preesistente “squilibrio chimico” (Moncrieff, 2008). Anche due recenti studi sul confronto tra elettroshock (ECT) vero e “fasullo” evidenziano l’importanza degli aspetti non tecnici di questo trattamento. Rasmussen (2009) conclude che «percentuali sostanziali di pazienti che sembrano essere gravemente malati rispondono in maniera piuttosto forte a trattamenti fasulli» (p. 57). Nessuno degli studi presi in considerazione da Read& Bentall (2010) ha trovato differenze significative tra elettroshock veri e fasullo dopo il periodo di trattamento. Il Northwick Park study (Johnstone et al.,1980), che molti considerano l’RCT meglio progettato per l’elettroshock (Kendell, 1981), viene spesso citato come il lavoro che ha dimostrato che l’elettroshock funziona. Ma basandosi su valutazioni di pazienti o infermieri non sono emerse differenze significative, in un trattamento di quattro settimane, tra vero e falso elettroshock. L’unica differenza positiva – presente nei pazienti deliranti, cioè con depressione psicotica, e percepita solo dagli psichiatri– era scomparsa un mese dopo il trattamento. Dopo sei mesi, c’era solo una differenza di due punti nel punteggio della Hamilton Rating Scale for Depression (HRSD) a favore del trattamento fasullo. Alla luce delle attuali linee guida, è poco verosimile che questo studio possa essere citato in favore dell’elettroshock, e colpisce il fatto che i ricercatori, persino in quel caso, abbiano concluso dicendo che «molte sindromi depressive, per quanto gravi, possono risolversi positivamente con un’assistenza medica e infermieristica di tipo intensivo anche se non sono somministrati trattamenti fisici» (Johnstone et al., 1980, p. 1319). Conclusioni simili emergono dalla letteratura sulla psicoterapia. La terapia cognitivo-comportamentale (cognitive-behavioral therapy [CBT]) è la forma di psicoterapia che gode oggi di maggior preferenza. I suoi promotori sostengono che essa agisca correggendo cognizioni errate che sarebbero causa della depressione (Beck, 1993). Tuttavia, molti studi hanno dimostrato che se eliminiamo la maggior parte delle caratteristiche specifiche della CBT i risultati non cambiano (Jacobson et al., 1996). Una review completa di studi sulle differenti componenti della CBT ha concluso che vi sono «poche prove del fatto che interventi specificamente cognitivi aumentino in modo significativo l’efficacia della terapia» (Longmore & Worrell, 2007, p. 173)4. Vi sono prove schiaccianti che i fattori non specifici, in opposizione a quelli specifici, sono responsabili di quasi tutti i cambiamenti che avvengono in terapia. Budd & Hughes (2009) scrivono: «Non sono emersi chiari aspetti di superiorità a favore di alcun specifico trattamento» (p. 511). Cooper (2008) offre un esame aggiornato e completo della ricerca empirica sulla efficacia della psicoterapia in generale. Ciò che emerge dalle prove è che i fattori non specifici (caratteristiche del paziente, fattori extra-terapeutici, variabili della relazione, aspettativa di guarigione ed effetto placebo) incidono per circa l’85% della varianza del risultato della psicoterapia. In particolare, la relazione tra alleanza terapeutica e risultato sembra essere molto robusta qualunque siano le modalità di trattamento e la psicopatologia dei pazienti (Castonguay & Beutler, 2006). La mancanza di risultati significativamente migliori derivati dall’uso di tecniche specifiche non si limita ai setting di ricerca. Per esempio, in una review di più di 5.000 casi trattati in diversi setting clinici dal National Health Service (NHS) inglese non è stato possibile attribuire alcuna varianza significativa allo specifico modello di psicoterapia utilizzato; è emerso che sono i fattori non specifici, come la relazione terapeutica, a incidere per la maggior parte della varianza (Stiles, Barkham & Mellor-Car, 2008). Questo ha reso abbastanza difficile formulare linee guida a livello nazionale. Sebbene la Quick Reference Guide del National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE, 2009b) fornisca raccomandazioni chiare e definitive su come i terapeuti debbano muoversi in caso di depressione, una lettura dell’intera guida (NICE, 2009a) rivela che, in realtà, si è ben lontani dall’avere prove che un approccio particolare sia superiore agli altri.

La recovery nei disturbi mentali gravi

L’allontanamento da un paradigma tecnologico è in grande sintonia con le importanti intuizioni del cosiddetto “approccio centrato sulla recovery” (“guarigione”),che è diventato sempre più influente (Slade, 2009). Vi è maggiore consapevolezza che la guarigione da un disturbo mentale grave che sia personalmente significativa per il paziente non è necessariamente correlata ai trattamenti specifici che vengono prescritti (Davidson, 2003). La ricerca ha sottolineato l’importanza, per il raggiungimento di risultati robusti, dell’alleanza terapeutica (Frank & Gunderson, 1990). Altri hanno sottolineato l’importanza dell’autostima e di un locus of control interno (Harrow & Jobe, 2007). Pare inoltre essere di grande importanza la creazione di un contesto terapeutico che promuova l’empowerment e la relazionalità e che aiuti a ricostruire un’identità positiva (Mancini, Hardiman & Lawson, 2005; Tew et al., 2012).

Il concetto di recovery è ancora in fase di sviluppo (Leamy et al., 2011). Dati di ricerca provenienti da contesti (Raguram et al., 2002) e comunità (Seebohmet al., 2005) esterni al mondo occidentale rivelano che le persone guariscono da disturbi mentali gravi seguendo strade diverse, sottolineando così l’importanza cruciale del rispetto delle differenze in psichiatria, sia dal punto di vista teorico che terapeutico (Halliburton, 2004). Al contempo, è sempre più chiaro che interventi tecnici specifici, come gli psicofarmaci, hanno un impatto limitato sul carico totale di un disturbo mentale grave (Warner, 2003). Una meta-analisi di RCT sull’efficacia dei farmaci antipsicotici di prima e seconda generazione ha mostrato che, nel migliore dei casi, i miglioramenti osservati con due scale frequentemente usate (la Brief Psychiatric Rating Scale [BPRS] di Overall & Gorham [1962] e la Positive and Negative Syndrome Scale [PANSS] di Kay, Fiszbein & Opler [1987]) erano «così limitati da essere deludenti» (Lepping et al., 2011, p. 344). Nonostante la cautela degli autori nel concludere che gli antipsicotici hanno «effetti trascurabili nella pratica clinica» (p. 345), visti i loro risultati e quelli di altri gruppi (Bola, Kao & Soydan, 2012), questa conclusione non sembra così irragionevole. L’eccessivo affidamento sugli psicofarmaci come risposta primaria a disturbi mentali gravi ha creato una condizione di cecità verso gli effetti molto negativi di alcuni psicofarmaci, e una vergognosa collusione con le industrie farmaceutiche che hanno venduto l’illusione di grandi innovazioni nella categoria degli antipsicotici. I vantati progressi terapeutici erano, nella realtà,«spuri» (Tyrer & Kendall, 2009, p. 4). Come ha detto recentemente Kendall(2011), «la storia dei farmaci atipici e degli antipsicotici di seconda generazione (second generation antipsychotics [SGA]) non è una storia di scoperte e progressi clinici, ma una storia di risultati contraffatti, di soldi e di marketing» (p. 267). Questi psicofarmaci sono associati all’aumento di rischio cardiovascolare (Foley & Morley, 2011). Simili effetti iatrogeni sono stati citati come una delle ragioni della diminuzione significativa dell’aspettativa di vita nelle persone colpite da disturbi mentali (Thornicroft, 2011).

La massa delle prove non supporta l’idea che i problemi della salute mentale si affrontino meglio con un linguaggio tecnico o che una buona pratica psichiatrica possa essere concepita come una serie di interventi specifici e discreti. Con ciò non si intende dire che la conoscenza e l’expertise medico non siano rilevanti e persino di importanza vitale nel campo della salute mentale. Ma i problemi che ci troviamo di fronte richiedono un tipo di comprensione e pratica medica più ricca di sfumature. Come si sono espressi di recente Kirmayer & Gold (2012), «definire la psichiatria come neuroscienza applicata valorizza il cervello, ma ci spinge verso una disciplina che è sia senza mente che senza cultura» (p. 308). È necessario avere un approccio ai problemi della salute mentale che sia davvero sensibile al complesso intergioco di forze sottostanti (biologiche, psicologiche, sociali e culturali) che possono venire impiegate terapeuticamente. Diventa sempre più chiaro che se vogliamo ottenere migliori risultati per i nostri pazienti, dobbiamo concentrarci maggiormente sui contesti, le relazioni, e la creazione di servizi dove sia prioritaria la promozione di dignità, rispetto, significato e impegno (Slade, 2009). Dobbiamo prendere confidenza con le differenze culturali, l’empowerment degli utenti e l’importanza del auto-mutuo-aiuto (Warner, 2010).

La collaborazione col movimento degli utenti psichiatrici

Sebbene i pazienti affetti da malattia mentale stessero lottando collettivamente per i propri obiettivi già dal XVII secolo (Campbell, 2009), si è dovuto arrivare agli anni 1980 perché nascessero le prime vere organizzazioni di utenti. Da allora, la crescita del movimento è stata veloce. Solo nel Regno Unitosi calcola ora che ci siano circa 300 gruppi con circa 9.000 membri (Wallcraft, Read & Sweeney, 2003). Il movimento degli utenti psichiatrici oggi è diffuso in tutto il mondo, e le organizzazioni fondate dagli utenti sono consultate dai governi nazionali, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, dalle Nazioni Unite e dalla Società Mondiale di Psichiatria (vedi ad esempio il sito Internet www.mindfreedom.org/campaign/global). Sebbene ad alcuni utenti vada bene definire se stessi e i propri problemi con una cornice biomedica, per molti altri non è così. Questi gruppi e questi pazienti hanno diversi punti divista, ma in generale sono uniti dal rifiuto di una cornice tecnologica e del vocabolario e della logica da esperti con cui essa definisce i loro problemi. Un buon esempio è il movimento “Sentire le voci”, l’Hearing Voices Network (HVN) sorto in Olanda alla fine degli anni 1980 e fondato dallo psichiatra Marius Romme (Romme & Escher, 1993). Si è poi diffuso in Europa e in America soprattutto grazie all’impegno delle persone che sentono le voci. L’HVN non è solo un’organizzazione di sostegno tra pari, cioè di auto-mutuoaiuto (self-help), ma offre anche un modo diverso di comprendere e rispondere al fenomeno del sentire le voci. Altre organizzazioni, come Mind Freedom International (www.mindfreedom.org) e Icarus Project (theicarusproject.net) non si limitano solo a offrire sostegno tra pari, ma sfidano anche il modello psicopatologico dominante. In questo modo, ampie porzioni del movimento degli utenti psichiatrici tentano di dare nuove interpretazioni alle esperienze di malattia mentale, disagio e alienazione, trasformandole in sfide umane invece che tecniche (Stastny & Lehmann, 2007).Vi sono anche prove che molti pazienti che non sono impegnati attivamente nel movimento degli utenti psichiatrici trovano gli interventi psichiatrici problematici e a volte dannosi. In uno studio sul punto di vista degli utenti dei servizi, Roberts & Wolfson (2004) hanno trovato che molti utenti in realtà non attribuivano valore alle competenze tecniche dei professionisti, ma erano più preoccupati degli aspetti umani dei loro incontri, per esempio essere ascoltati, presi sul serio e trattati con dignità, gentilezza e rispetto.

Conclusioni

La psichiatria non è neurologia, non è una medicina del cervello. Sebbene i problemi della salute mentale abbiano senza dubbio una dimensione biologica, vanno oltre l’ambito del cervello e coinvolgono dimensioni sociali, culturali e psicologiche. Queste non si possono sempre comprendere attraverso l’epistemologia biomedica. La vita mentale degli esseri umani ha una natura discorsiva, narrativa. Come affermano Harre & Gillet (1994), «dobbiamo imparare a vedere la mente come il punto di incontro di una serie di influenze strutturanti la cui natura può venire dipinta solo su una tela più grande di quella messa a disposizione dallo studio dei singoli organismi» (p. 22). I modelli riduzionisti non sono in grado di comprendere ciò che conta di più in un processo di guarigione. Le evidenze empiriche ci stanno dicendo che dobbiamo modificare radicalmente la nostra concezione di ciò che sta al cuore (e forse all’anima) della pratica della salute mentale. Se dobbiamo seguire la psichiatria evidence-based e collaborare col movimento degli utenti psichiatrici, abbiamo bisogno di una psichiatria che sia in grado, a livello intellettuale ed etico, di confrontarsi con i problemi che ci stanno di fronte. Non solo dobbiamo aggiungere conoscenze delle scienze umane e sociali nel curriculum dei professionistiche formiamo, ma anche sviluppare una sensibilità differente verso la malattia mentale e una diversa concezione del nostro ruolo di medici (Roberts & Wolfson, 2004). Non stiamo cercando di sostituire il nostro paradigma con un altro. Una psichiatria post-tecnologica non abbandona gli strumenti della scienza empirica né rifiuta le tecniche mediche o psicoterapeutiche, ma deve cominciare a considerare prioritari gli aspetti etici ed ermeneutici del nostro lavoro, sottolineando in tal modo l’importanza di prendere in esame i valori, le relazioni e le basi etiche e politiche della cura e del prendersi cura. Un tale cambiamento avrà grosse implicazioni per le nostre priorità di ricerca, le abilità che insegniamo ai nostri allievi, le sorti dei servizi che cerchiamo di portare avanti e il ruolo che giochiamo nel confrontarci coi rischi. Ciò significa per la nostra professione affrontare la sfida, impegnativa ma entusiasmante, di riconoscere ciò che funziona di più. Avremo ancora bisogno di utilizzare le nostre conoscenze sul cervello e sul corpo per individuare le cause organiche dei disturbi mentali, così come di conoscere gli psicofarmaci per dare sollievo a certe forme di disagio. Ma una buona pratica psichiatrica comprende un confronto attivo con la complessa natura dei problemi della salute mentale, un salutare scetticismo per il riduzionismo biologico, una tolleranza verso la natura ingarbugliata del mondo delle relazioni e dei significati, e una capacità di negoziare tali questioni in maniera tale da dare maggiore empowerment al movimento degli utenti psichiatrici e a chi si prende cura di loro. Proprio come la capacità di operare sta alla base di una buona pratica chirurgica, la capacità di lavorare con livelli molteplici di conoscenza e molti diversi sistemi di significato sta al cuore del nostro lavoro. Non avremo mai una scienza biomedica simile all’epatologia o alla medicina respiratoria, e questo non perché siamo cattivi medici, ma perché le questioni con cui ci confrontiamo sono di natura diversa. Comprendere il contributo unico della psichiatria all’assistenza sanitaria può solo aumentare l’importanza della nostra professione per i restanti campi della medicina. Tutte le forme di sofferenza comprendono livelli di storia personale immersi in un fulcro di relazioni significative, a loro volta immerse in complessi sistemi culturali e politici. Kleinman & van der Geest (2009) hanno giustamente criticato il modo con cui la medicina è giunta a considerare l’“assistenza” in termini puramente tecnici. Allo stesso modo, Heath (2011) ha mostrato l’importanza delle relazioni e della comprensione narrativa in medicina. La psichiatria ha il potenziale di offrirsi come guida in questo campo. Rinchiudersi in un’identità biomedica ancora più marcata non significa solo tenere in scarsa considerazione i nostri pazienti ma rischia di portare la professione in un vicolo cieco, mentre quello di cui abbiamo bisogno è essere aperti a strade diverse.

* Edizione originale: Psychiatry beyond the current paradigm. The British Journal of Psychiatry, 2012, 201, 6: 430-434 (DOI: 10.1192/bjp.bp.112.109447). Qui riportiamo solo gli indirizzi dei primi tre autori, gli indirizzi degli altri autori sono reperibili alla pagina Internet http:// bjp.rcpsych.org/content/201/6/430.abstract. Ringraziamo per il permesso. Traduzione di Francesca Tondi. Pubblichiamo questo articolo anche in ideale continuazione del dibattito sullo stato e sulle prospettive della psichiatria iniziato nel n. 3/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane (Andrea Angelozzi et al., Pier Francesco Galli, Paolo Migone) e continuato nei numeri 1/2006 (Giuseppe Messina, Fabio Canegalli), 2/2006 (Pietro Pellegrini), 4/2006 (Paolo Romano, Pietro Pellegrini), 3/2007 (Alberto Cardinali), 2/2008 (Euro Pozzi), 3/2008 (Pietro Pellegrini), 3/2009 (Ernesto Venturini), 4/2009 (Pietro Pellegrini), 2/2010 (Pietro Pellegrini) e 4/2011 (Alberto Cardinali).

** Centre for Mental Health Care and Recovery, Bantry General Hospital, Carrignagat, Bantry, County Cork, Ireland, E-Mail <Pat.Bracken@hse.ie>.

*** University of Bradford, Richmond Road, Bradford, West Yorkshire, BD7 1DP, UK, E- Mail <philipfthomas@me.com>.

**** Lincolnshire Partnership NHS Foundation Trust Child and Family Services Horizon Centre, Homer House, Monson Street, Lincoln, LN5 7RZ, UK, E-Mail <stimimi@talk21.com>.

Gli altri co-autori dell’articolo: Eia Asen, Graham Behr, Carl Beuster, Seth Bhunnoo, Ivor Browne, Navjyoat Chhina, Duncan Double, Simon Downer, Chris Evans, Suman Fernando, Malcolm Garland, William Hopkins, Rhodri Huws, Bob Johnson, Brian Martindale, Hugh Middleton, Daniel Moldavsky, Joanna Moncrieff, Simon Mullins, Julia Nelki, Matteo Pizzo, James Rodger, Marcellino Smyth, Derek Summerfield, Jeremy Wallace, David Yeomans.Note

NOTE

(1)  Questo saggio di Marcia Angell (2011), dal titolo “L’epidemia di malattie mentali e le illusioni della psichiatria”, è stato tradotto in italiano a pp. 263-282 del n. 2/2012 di Psicoterapia e Scienze Umane.

(2)  Si vedano anche gli interventi di Robert Spitzer e Allen Frances “Guerre psicologiche: critiche alla preparazione del DSM-5” a pp. 247-262 del n. 2/2011 di Psicoterapia e Scienze Umane, e il DVD del seminario di Allen Frances “Psichiatria tra diagnosi e diagnosticismo. Il dibattito critico sulla preparazione del DSM-5”, organizzato da Psicoterapia e Scienze Umane all’interno della “Settimana della Salute Mentale” della AUSL di Bologna il 22 ottobre 2011 (vedi la pagina Internet www.psicoterapiaescienzeumane.it/Frances_22-10-11.htm). [N.d.R.]

(3)  Per una discussione delle ricerche di Kirsch, e più in generale alla poca efficacia dei farmaci antidepressivi, si veda anche l’articolo “Farmaci antidepressivi nella pratica psichiatrica: efficacia reale” a pp. 312-322 del n. 3/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane. [N.d.R.]

(4)  Si veda a questo proposito l’articolo di Shedler “L’efficacia della terapia psicodinamica” a pp. 9-34 del n. 1/2010 di Psicoterapia e Scienze Umane, in particolare il seguente passaggio a p. 20: «Le evidenze disponibili indicano che i meccanismi del cambiamento nella terapia cognitiva non sono quelli presunti dalla teoria. Kazdin (2007, p. 8), in una revisione della letteratura sui mediatori e i meccanismi del cambiamento in psicoterapia, concluse: “Forse oggi possiamo affermare con maggiore certezza che, contrariamente a quanto era stato proposto originariamente, qualunque cosa sia alla base dei cambiamenti della terapia cognitiva, non sembra siano le cognizioni”». Si veda anche l’articolo di Westen, Morrison Novotny & Thompson-Brenner (2004) “Lo statuto empirico delle psicoterapie validate empiricamente: assunti, risultati e pubblicazione delle ricerche” a pp. 7-90 del n. 1/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane, in particolare il seguente passaggio a p. 28: «Ablon & Jones (1998) (…) hanno misurato le variabili del processo desumibili dalle trascrizioni di psicoterapie brevi per la depressione, a indirizzo sia cognitivo che psicodinamico, (…) [e hanno] riscontrato non solo che i terapeuti di entrambi gli orientamenti utilizzavano tecniche dell’altro approccio (un risultato, questo, analogo a quello riportato da Castonguay et al., 1996), ma che in entrambe le forme di trattamento il risultato positivo era associato alla misura in cui gli interventi si adeguavano al modello empirico della psicoterapia psicodinamica. In questo studio, il fatto che i terapeuti cognitivi si servissero di tecniche cognitive non era in effetti correlato con il risultato». [N.d.R.]

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Tratto da: Psicoterapia e Scienze Umane, 2013, XLVII, 1: 9-22

 

One Thought on “Una psichiatria al di là dell’attuale paradigma*

  1. Lodovico depretis on 3 luglio 2014 at 11:36 am said:

    Molto interessante,in buona parte condivisibile anche se può’ suonare oscurantista la scarsa fiducia sui progressi delle neuro scienze e della ricerca biologica. Credo sia necessario anche fare attenzione a non ritornare alla vecchia dicotomia tra organicismo e psicologismo in una alternanza di prevalenze(30 anni fa era demonizzato addirittura il concetto di disturbo mentale,oggi si enfatizzano talvolta in modo irragionevole le ipotesi biologiche). Trovo comunque molti è importanti spunti di riflessione

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