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Il Recovery per il futuro della psichiatria

di Benedetto Saraceno

Recensione al volume Recovery. Nuovi paradigmi per la salute mentale. A cura di Antonio Maone e Barbara D’Avanzo. Raffaello Cortina Editore, 2015. Da Ricerca&Pratica, 2015; 31: 128-130.

Mi è piaciuto provare a leggere il libro di Maone e D’Avanzo comparando il modello-paradigma della deistituzionalizzazione versus il modello-paradigma del Recovery. Due modelli storicamente e geograficamente diversi: uno eminentemente italiano, l’altro anglosassone. Quattro brevi considerazioni: La deistituzionalizzazione è un processo critico, dotato di una forte componente distruttiva; distruttiva dei paradigmi della psichiatria, distruttiva del paradigma e del luogo fisico che è il manicomio, e dunque con una forte connotazione “destruens” piuttosto che “construens”. Potremmo dire che Basaglia ha soprattutto identificato il grande fattore di rischio per le persone che soffrono di una malattia mentale grave ossia la Psichiatria stessa.

Vi è inoltre una forte connotazione collettiva nel modello di deistituzionalizzazione in quanto essa avviene perché un collettivo decide di metterla in pratica. Il modello del Recovery è invece fortemente connotato da una attitudine molto propositiva, ossia da una componente orientata alla costruzione di paradigmi nuovi, di strategie nuove di intervento, ma ha una forte connotazione individuale: il Recovery ha soprattutto molto a che fare con il modo con cui l’operatore della psichiatria si confronta con la domanda. Certamente poi questo ha anche un impatto sull’organizzazione dei servizi, ma non c’è dubbio che il processo di deistituzionalizzazione ha un impatto piú diretto e radicale sulla organizzazione di servizi e regola i conti col passato della psichiatria in modo collettivo.

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Dialogo Aperto: il modello finlandese di trattamento della schizofrenia

Chiara Tarantino*

Un articolo dal titolo Talking Back to Madness, apparso recentemente su Science a firma del noto giornalista scientifico Michael Balter, professore di giornalismo medico-scientifico già alla Boston University e attualmente alla New York University (Balter, 2014), ha provato a fare il punto sulla controversa situazione degli approcci psicoterapeutici alla schizofrenia.

Scrive Balter: “Oggi gli psicoterapeuti utilizzano due approcci principali alla schizofrenia. Il primo, la terapia psicodinamica, deriva dalle prime tecniche psicoanalitiche (…) e si focalizza sia sulle esperienze infantili sia sulla modalità attraverso cui i sintomi psicotici inconsciamente assolvono una funziona positiva per il paziente, ad esempio mascherando pensieri e sentimenti insopportabilmente dolorosi. (…) Il secondo approccio, la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è un metodo più breve e pragmatico che conduce il paziente attraverso una serie di step guidati, programmati per esplorare le diverse interpretazioni di ciò che sta sperimentando, con l’obiettivo di modificare pensieri e comportamenti”.

L’autore propone poi una breve rassegna di dieci recenti studi che riassumono lo stato dell’arte dell’efficacia psicoterapeutica di questi approcci alla schizofrenia: accanto ad una moderata efficacia della psicoterapia psicodinamica (Rosenbaum et.al, 2012) o della CBT (Morrison et al., 2014; Grant et al., 2012; Van der Gaag et al., 2012), spesso associate al trattamento farmacologico tradizionale, Balter cita il lavoro di Seikkula e collaboratori (Seikkula et al., 2011), che ha coinvolto 117 pazienti al primo episodio psicotico. Il lavoro dei ricercatori finlandesi, tra i dieci presi in esame, è l’unico a vantare una percentuale di guarigione dell’81% grazie ad un trattamento psicoterapeutico familiare intensivo che coinvolge anche la rete sociale del paziente. Questo trattamento è il Dialogo Aperto, elaborato nella Lapponia occidentale secondo i principi dell’approccio adattato al bisogno di Alanen e configuratosi successivamente come un approccio indipendente.

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Davvero l’industria farmaceutica ha abbandonato la ricerca in psichiatria?

Antonio Maone

Da Nature, Dicembre 2011: “Anche la Novartis, come altre grandi aziende farmaceutiche, sta abbandonando i programmi tradizionali di ricerca finalizzati a individuare trattamenti per i disturbi mentali. Nature ha appreso che l’azienda sta chiudendo i laboratori di neuroscienze a Basilea (Svizzera).

Decisioni analoghe sono state prese dalla GlaxoSmithKline e dalla Astrazeneca, che l’anno scorso hanno annunciato la chiusura di tutte le loro divisioni di ricerca nelle neuroscienze. Anche le companies con sede negli USA Pfizer e Merck, così come la francese Sanofi, hanno rinunciato alla ricerca sui farmaci psicotropi. […]

Individuare e sviluppare farmaci per il sistema nervoso centrale è diventata un’attività ad alto rischio, con molte molecole che vengono abbandonate dopo anni di costosi trial clinici. Il mercato è già inondato di antidepressivi generici e a buon mercato, antipsicotici e altri farmaci che agiscono su target noti, prevalentemente recettori di neurotrasmettitori. Ciò ha indotto le companies a cercare target radicalmente nuovi, ma la ricerca si è rivelata difficile, dato che poco è noto della biologia del cervello e dei suoi disturbi.

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Una psichiatria al di là dell’attuale paradigma*

Pat Bracken**, Philip Thomas***, Sami Timimi**** et al.

Tratto da: Psicoterapia e Scienze Umane, 2013, XLVII, 1: 9-22   www.psicoterapiaescienzeumane.it  –  Articolo originale: Psychiatry beyond the current paradigm. British Journal of Psychiatry, 2012, 201, 6: 430-434

Cosa fa di uno psichiatra un bravo psichiatra? Quali specifiche abilità sono necessarie per praticare una “medicina della mente”? Sebbene sia impossibile rispondere in maniera esauriente a simili domande, riteniamo ci siano prove sempre più abbondanti del fatto che una buona pratica psichiatrica richieda in primo luogo un impegno con le dimensioni non tecniche del nostro lavoro, per esempio quelle relazionali, quelle che si rivolgono ai significati e ai valori.

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Come funzionano gli psicofarmaci? (I)

Antonio Maone*

Joanna Moncrieff (Department of Psychiatry and Behavioural Sciences, University College di Londra) si è occupata in particolare degli effetti dei farmaci psicotropi. Ha condotto meta-analisi per la Cochrane Collaboration ed è co-fondatrice e chair di Critical Psychiatry Network. E’ autrice di molte pubblicazioni, fra le quali i libri The Bitterest Pills: The Troubling Story of Antipsychotic Drugs (2013) e The Myth of the Chemical Cure: A Critique of Psychiatric Drug Treatment (2009). Nel corso della sua attività ha formulato un modello esplicativo dell’azione dei farmaci psicotropi, definito drug-centred (centrato sul farmaco), alternativo a quello attualmente dominante disease-centred (centrato sulla malattia).

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Come funzionano gli psicofarmaci? (II)

Joanna Moncrieff* & David Cohen**

Articolo originale: “How do psychiatric drugs work?”, British Medical Journal, 338, 1535-1537, 2009

I farmaci utilizzati per i problemi psichiatrici vengono prescritti sulla base dell’assunto che essi agiscano principalmente sui substrati neurochimici dei disturbi o dei sintomi. In questo articolo metteremo in discussione questa assunzione, proponendo che l’azione dei farmaci venga considerata piuttosto in termini di induzione di stati alterati, e che definiamo “modello di azione centrato sul farmaco”. Riteniamo che questa visione sia, rispetto alla prima, che è centrata sulla malattia, più compatibile con le evidenze disponibili. E potrebbe permettere ai pazienti di esercitare un maggiore controllo sulle decisioni riguardanti il valore della farmacoterapia, indirizzando il trattamento in un senso più collaborativo.

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Psicofarmaci: luci ed ombre. E’ tempo di un ripensamento? Aggiornamento sugli psicofarmaci per utenti e familiari. Istituto Mario Negri, Milano, 3 giugno 2014

Barbara D’Avanzo 

Articolo pubblicato su Ricerca&Pratica, 2014 Vol. 30 N. 5 :222-232  http://www.ricercaepratica.it

Indagine su un’epidemia, di Robert Whitaker (Giovanni Fioriti Editore, 2013), ha riproposto con chiarezza alcuni paradossi del progresso in ambito psicofarmacologico, rinnovando l’insuperata e dolorosa ambivalenza di familiari e utenti rispetto alla funzione degli psicofarmaci nella cura delle malattie mentali.

Di fronte a questa ultima sollecitazione critica è arrivata ancora una volta dai familiari e dalle loro associazioni la richiesta di “capirci qualcosa”. Il Laboratorio di Epidemiologia e Psichiatria Sociale dell’IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri ha accolto questa richiesta, organizzando in collaborazione con l’Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute mentale (UNASAM) una giornata seminariale dedicata ad utenti e familiari in cui i nodi cruciali sono stati ripresi da diversi punti di vista.

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Gli psichiatri sono una specie in via di estinzione? (I)

Antonio Maone*

Da qualche anno si è aperto un dibattito su una possibile “crisi” della psichiatria come disciplina medica e sulla reale consistenza delle sue basi scientifiche. Non si tratta affatto di prese di posizione ideologiche attribuibili a movimenti più o meno anti-psichiatrici, bensì di voci che si sono sollevate, anzi, dall’interno del mondo accademico e professionale.

Nel febbraio 2010, un numero della rivista World Psychiatry, organo ufficiale della World Psychiatric Association (WPA), ospitava un Forum dal titolo davvero provocatorio: “Are psychiatrists an endangered species?” (Gli psichiatri sono una specie in via di estinzione?), aperto da un intervento di Heinz Katschnig, dell’Università di Vienna [1]

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Gli psichiatri sono una specie in via di estinzione? (II)

Antonio Maone*

La crisi c’è, ma è evolutiva

Lo stesso numero di World Psychiatry che ospita il Forum di cui abbiamo scritto nella prima parte, è aperto da un editoriale di Mario Maj [1], dell’Università di Napoli, e all’epoca Presidente della WPA, nel quale l’autore esordisce ammettendo che “potrebbe essere vero, come afferma Katschnig, che gli psichiatri stiano diventando una specie in via di estinzione. Ma ciò che dovremmo fare è cogliere l’essenza del problema e tradurre il possibile rischio in un’opportunità evolutiva.”

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